I Pianeti nel mito e nell'arte

di Ilaria Sganzerla

 

I nomi che hanno ricevuto i pianeti sono quelli degli dèi romani, i quali a loro volta li hanno coniati dalla tradizione greca. Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno e Plutone, prima che venisse declassato, sono le divinità latine con cui sono stati battezzati i pianeti così come li conosciamo noi. Gli antichi però ne conoscevano solo cinque, perché Urano, Nettuno e Plutone erano troppo lontani e deboli per essere visti a occhio nudo. Essi sono stati scoperti a partire dalla fine del ‘700 e, comprensibilmente, si è voluto proseguire per quel che riguarda la loro nomenclatura, la tradizione mitologica latina. Se i Romani chiamarono i pianeti con la corrispondenza latina degli dèi greci, si potrebbe pensare che la civiltà dell’Egeo li chiamasse Hermes, Afrodite, Ares, Zeus e Crono. In realtà non fu proprio così, o non da subito. I pianeti infatti erano detti astra planètes, che significa “stelle vagabonde” perché queste luci non stavano ferme nel cielo ma le si vedeva ora in un punto ora in un altro dello Zodiaco.

Le cinque altre stelle, situate alla rinfusa e niente affatto simili a quelle, giran fra le dodici figure, dappertutto. E non potresti scoprir dove si trovano neppure guardando l’altre stelle, poiché tutte son stelle erranti. Grandi sono gli anni che impiegano per compiere il lor giro e grande è lo splendore ch’esse emanano viaggiando verso un unico traguardo. (Arato di Soli, I fenomeni e i pronostici, 690-699)

Ma le cinque stelle girovaghe in origine non furono identificate con gli dèi, piuttosto furono considerate proprietà degli dèi. Così c’era la stella che apparteneva a Mercurio, quella che apparteneva a Venere e via dicendo e ciascuna aveva un nome proprio che, solo successivamente fu abbandonato e sostituito da quello della divinità. Fino ad allora i nomi dei pianeti furono Phaenon, Phaeton, Pyroeides, Phosphoros/Hesperos e Stilbon. Con queste identità ce li descrisse Eratostene di Cirene, matematico e astronomo alessandrino che, nel 245 a.C., compose la sua opera Catasterismi, in cui descriveva le costellazioni e i miti ad esse associati. Stessa versione ne diede il mitografo romano Igino nel I secolo d.C. Entrambi dunque vollero descrivere i pianeti nella loro accezione più arcaica di stelle appartenenti agli dèi, nonostante all’epoca in cui vissero, questi corpi celesti venissero già identificati con gli dèi.

GIOVE

Il primo pianeta che viene presentato è Phaenon che significa lo Splendente ed era l’astro di Giove.

L’ordine con cui gli antichi astronomi descrivevano i pianeti era basato sull’ampiezza della loro orbita in ordine decrescente, con la sola eccezione di Giove e Saturno che talvolta venivano invertiti. Saturno infatti è il pianeta più lontano, dunque con l’orbita maggiore, ma lo splendore di Giove era così dominante su quello di Saturno che decisero di assegnare a esso l’onore di aprire la lista dei planètes.

Di Giove-Phaenon, Igino scrisse:

Secondo Eradide Pontico, quando Prometeo modellò gli uomini, diede a costui una bellezza fisica senza uguali. Egli pensò di tenerlo nascosto, senza restituirlo come tutti gli altri, ma Cupido lo denunciò a Giove. In seguito Mercurio fu mandato da Phaenon per convincerlo a recarsi da Giove e ottenere da lui l’immortalità. Così fu messo nel firmamento. (Igino, De Astronomia)

Ma se questa era la concezione greca più antica di Giove, a partire dal VII-VI secolo a.C., i pianeti erano già identificati con le divinità. In questo periodo, Talete di Mileto, il primo filosofo e astronomo greco a noi noto, si recò in Mesopotamia e portò in Grecia l’astronomia dei Babilonesi. Fu con questo popolo che nacque l’astrologia intesa nell’accezione moderna del termine, la dottrina secondo cui osservando il movimento degli astri, è possibile predire avvenimenti futuri per l’umanità. Inizialmente, le previsioni riguardavano il re e il suo regno, mai l’uomo comune che non esercitava potere sugli altri individui. E fin da subito i pianeti, per il loro bizzarro percorso nel firmamento, furono considerati espressione delle divinità, anzi erano gli dèi stessi che camminavano nello Zodiaco inviando segni alle creature mortali.

Quando l’astrologia babilonese arrivò in Grecia, anche gli dèi vi fecero il loro ingresso e, rivestiti dei nomi delle divinità locali, si appropriarono dell’identità dei dischetti luminosi. E’ più o meno in questa epoca che nacque anche l’oroscopo, l’arte che in base alla data e all’ora di nascita di una persona, ne predice il carattere e il destino osservando la costellazione presente al momento della sua genesi e confrontando la posizione dei pianeti rispetto a essa. Oroscopo deriva dal greco óra che significa “ora” e scopéo che significa “osservo”, dunque “osservo l’ora”… in cui sei nato e guardo la configurazione celeste che ti ha dominato per dirti chi sei e che sarà di te. Identificare i pianeti con gli dèi significava dare un’indicazione del carattere della persona, mentre analizzare le loro posizioni nella costellazione della genesi permetteva di conoscerne il destino.

Phaenon, lo Splendente, divenne così Zeus e poi Giove presso i Romani. Zeus era il re degli dèi ed è curioso notare come, pur non sapendolo, gli antichi avessero azzeccato in pieno l’abbinamento pianeta-dio, poiché Giove è il pianeta più grande del Sistema Solare, il “sovrano” fra i pianeti proprio come Zeus lo era fra gli dèi. Oltretutto anche l’identificazione col dio del tuono e della folgore calza perfettamente con la natura del pianeta, rivelata solo nel secolo scorso. Giove è infatti un pianeta dominato da violente tempeste che continuamente si scatenano nella sua atmosfera ad altissima turbolenza.

Nella mitologia greca Zeus è il sovrano del mondo appartenente alla seconda generazione di dèi, gli Olimpici. La prima generazione era quella dei dodici Titani, figli di Urano, il cielo, e di Gea, la terra. Crono era il re dei Titani, suoi fratelli, nonché del mondo; ma una profezia gli rivelò che sarebbe stato detronizzato da uno dei suoi figli, proprio come lui aveva fatto col padre Urano che, non volendo staccarsi dall’abbraccio d’amore con Gea, rischiò di uccidere i figli che ella portava nel ventre ormai pronto per il parto. Su suggerimento di Gea, sofferente, il piccolo Crono stretto nel grembo materno, recise con un falcetto i genitali di Urano liberando così la madre dalla morsa rovinosa e divenendo lui il sovrano del mondo. Ma arrivò il giorno in cui il copione stava per ripetersi. Fu quando Crono si unì a Rea, sua sorella, e diventò a sua volta padre. Per scongiurare la detronizzazione inghiottiva ogni nascituro, finché con uno stratagemma Rea gli impedì di inghiottire l’ultimo: Zeus. Al suo posto gli consegnò una pietra avvolta in fasce e portò il piccolo sul monte Ida nell’isola di Creta, affinché fosse allevato al riparo dal padre. Sua nutrice fu una capretta di nome Amalthea, di cui è conservata memoria nella stella più luminosa dell’Auriga, Capella. Divenuto adolescente, Zeus andò dal padre e gli somministrò una pozione che gli fece rigurgitare tutti i figli che aveva nel ventre e, insieme ai suoi fratelli, lo spodestò come era destino, nel celebre scontro fra dèi noto come Titanomachia.

Una nuova era del mondo fu inaugurata, quella in cui i reggenti erano i dodici dèi Olimpici perché sul monte Olimpo trasferirono la loro sede. A capo stava Zeus, il cui avvento segnò il passaggio dal Caos al Cosmos che in greco significa ordine. La prima generazione di dèi, quella titanica, era infatti costituita da divinità i cui tratti conservavano ancora tracce di istinti primordiali, erano violenti e temerari, senza leggi che regolassero il mondo. Essi erano stati creati nel Caos, che in greco significa vuoto. Il caos era l’abisso da cui anche i primi dèi nacquero, un vuoto privo di luce e senza ordine. Con Zeus invece fece il suo ingresso nella storia del mondo il Cosmos, l’ordine, l’universo regolato dalla legge e dalla giustizia di cui Zeus stesso si fece portatore.

Canterò Zeus, il migliore e il più grande degli dèi, onniveggente signore, che ha in pugno il destino: con Temi, seduta al suo fianco, scambia parole di saggezza. Siimi propizio, Cronide onniveggente, grande e glorioso. (Inno a Zeus)

Temi era la personificazione della legge. Nata da Urano e Gea, fu una delle spose di Zeus. Come prima azione, il figlio di Crono suddivise il creato in tre regni che spartì con due dei suoi fratelli: mise a capo delle acque Poseidone, il Nettuno dei Romani, affidò il ventre buio di Gea ad Ade, il latino Plutone, mentre tenne per sé il cielo e la terra. Zeus si unì in matrimonio con Hera – Giunone per i Romani – ma è indubbiamente divenuto famoso per i suoi moltissimi amori extraconiugali. I satelliti di Giove scoperti da Galileo furono battezzati proprio col nome di quattro suoi grandi amanti: Io, la ninfa figlia del fiume Inaco che, dopo essere stata sedotta da Zeus che le si presentò sottoforma di nube, venne trasformata in una giovenca da Hera che così volle vendicarsi del tradimento subito; Europa, vergine della Fenicia che Zeus conquistò trasformandosi in un bellissimo toro bianco e dalla cui unione nacquero il famoso Minosse, Radamanto e Sarpedone; Ganimede, fanciullo di straordinaria bellezza di cui il signore degli dèi si innamorò perdutamente e, assunte le sembianze di un’aquila, lo rapì e lo portò sull’Olimpo dove gli assegnò l’incarico di coppiere degli dèi; e infine Callisto, altra vergine di eccezionale avvenenza che Zeus sedusse nonostante la giovane fosse votata alla dea della caccia, Artemide, al cui corteo si era ammesse solo facendo voto di castità. Dopo averne scoperto la gravidanza, la dea punì la giovane trasformandola in un’orsa, quella che poi Zeus collocò fra gli astri come Orsa Maggiore.

Il mondo dell’arte ha celebrato Zeus fin dai tempi più antichi dedicandogli dipinti, sculture, monete e ogni forma espressiva di cui si avvale.

fig.1

All’Antikensammlungen Museum di Monaco è conservata un’anfora usata durante la festa della Panatenee, in cui è rappresentato Zeus con un lungo scettro nella mano destra e il fulmine nella sinistra (Fig. 1). La figura è barbata, segno che si tratta di un uomo adulto, poiché in Grecia i ragazzi quando passavano dall’adolescenza all’età adulta attraverso riti di iniziazione, si facevano crescere la barba. L’anfora risale al 480 a.C., epoca in cui lo stile classico era agli albori.

Nella prima metà del XVI secolo, un artista tedesco considerato uno dei più grandi talenti dell’arte incisoria, xilografica e miniaturista, disegnò una serie di tavole intitolata “I Sette Pianeti con lo Zodiaco”. Era Hans Sebald Beham, nato a Norimberga nel 1500 e morto a Francoforte nel 1550. Ciascuna tavola ritraeva un pianeta accompagnato da una o da due costellazioni dello zodiaco. I pianeti erano sette perché gli antichi, a partire dai Babilonesi, vi annoveravano anche il Sole e la Luna, raggiungendo così il numero sette che era considerato un numero sacro in quanto ricorrente nel cosmo. L’abbinamento pianeta-costellazione zodiacale seguiva quanto aveva scritto Tolomeo nel I secolo d.C. nella sua opera “Le previsioni astrologiche”. Al tempo del famoso scienziato astronomia e astrologia erano ancora profondamente intrecciate, per cui a ogni pianeta venne assegnata una “casa” in uno o più segni. Il Sole e la Luna vennero associati rispettivamente al Leone e al Cancro, le due costellazioni più settentrionali e dunque quelle più adatte ad ospitare i cosiddetti “pianeti luminari”. Il Leone, di natura maschile, venne associato al Sole (Fig. 2), mentre il Cancro di natura femminile alla Luna (Fig. 3). Nell’arco dell’anno, la costellazione del Leone inaugurava la serie di segni zodiacali solari, diurni e maschili che erano dunque quelli dal Leone al Capricorno, mentre quelli dall’Acquario al Cancro rappresentavano l’emiciclo lunare, notturno e femminile. I cinque pianeti veri e propri avevano una casa in un segno diurno e una in segno notturno.

fig.2
fig.3
fig.4

In entrambi gli emicicli ogni segno zodiacale è il domicilio di uno dei cinque pianeti, uno in aspetto col Sole e l’altro con la Luna, secondo una successione che rispetta le sfere dei movimenti planetari e le specifiche proprietà naturali.(Claudio Tolomeo, Le previsioni astrologiche, I, 18)

Ecco dunque che Giove lo vediamo rappresentato col segno solare del Sagittario e con quello lunare dei Pesci (Fig. 4). Egli è in piedi circondato dalle nuvole. In alto è impresso il numero 2 per indicare che si tratta della seconda lastra disegnata da Beham mentre subito sotto, una fascia fluttuante reca il nome latino del pianeta: Iuppiter. Ai piedi infine la caratterizzazione della divinità: “Divum atque hominum rex”, il re degli dèi e degli uomini.

SATURNO

Dopo Giove, per gli antichi era la volta di Saturno.

La seconda [stella] fu chiamata Phaeton (Radioso), non è grande e prende il suo nome dal figlio di Helios. (Eratostene, Epitome dei Catasterismi, 43)

Phaeton, che in greco significa splendente, era dunque la stella che apparteneva a Saturno, che per i Greci era Crono, il padre di Zeus. E Phaeton altri non è che Fetonte, il figlio del Sole.

Fetonte volle a tutti i costi per una volta sostituire il padre Elio nella traversata diurna del cielo, senza considerare che la conduzione del carro su cui veniva trasportato il sole, richiedeva un’esperienza e una forza che il giovane non

aveva. I quattro cavalli che lo trainavano erano possenti, scalpitanti e impetuosi. Tenerli sulla giusta traiettoria richiedeva uno sforzo fisico e una determinazione enormi; Fetonte insistette a tal punto che Elio cedette alla richiesta, ma la concessione si rivelò disastrosa. Il giovane si avvicinò troppo alla terra e ne bruciò gran parte, il carro era completamente impazzito e la distruzione sarebbe stata totale se Zeus non si fosse deciso a colpire Fetonte con un fulmine facendolo precipitare nel fiume Eridano. Elio si riappropriò così del carro e, seppur addolorato per la morte del figlio, ristabilì il percorso del sole.

L’abbinamento di Fetonte con Saturno-Crono è dovuto al fatto che gli antichi consideravano il pianeta l’equivalente notturno del Sole. Secondo l’astrologia babilonese infatti, vi era una triade di stelle principali: il Sole, la Luna e Venere, dove Venere probabilmente era stata elevata a rango superiore per il fatto che, essendo un pianeta interno, mostrava le fasi, come la Luna. Anche Mercurio avendo l’orbita compresa in quella della Terra, si comporta allo stesso modo, ma la sua vicinanza al Sole impedisce di osservare il dettaglio delle fasi. Sole e Luna erano dunque gli astri più importanti identificati con le divinità maggiori ed erano intimamente legati fra loro, poiché il calare del Sole determinava il crescere della Luna e quest’ultima si presentava nel suo massimo splendore, cioè nella fase piena, a mezzanotte quando il Sole era nel punto più basso sotto l’orizzonte. Per questo motivo, si associò alla Luna il mondo superiore – la terra – mentre al Sole quello inferiore, ossia gli inferi.

I quattro pianeti rimanenti vennero invece messi in relazione coi punti cardinali e l’abbinamento venne fatto partendo dalla direzione in cui sorge il Sole e associando a ciascun punto i pianeti in ordine di orbita crescente. Così Mercurio, il più vicino al Sole e il suo messaggero, apparteneva all’oriente, mentre Marte si contendeva il nord o il sud, Giove apparteneva senza dubbio all’occidente e Saturno, come Marte, era destinato al nord o al sud. Poiché sia Marte che Saturno erano divinità calamitose e delle due Saturno lo era maggiormente, si trattava di capire a chi assegnare il settentrione e a chi il meridione. Ebbene, per la loro decisione, i Babilonesi si affidarono alle eclissi, altri segni celesti portatori di sventura. Poiché un’eclissi di Luna era meno nefasta di un’eclissi di Sole, Marte venne assegnato al nord, al mondo superiore dove stava la Luna e quindi ritenuto un pianeta lunare, mentre Saturno fu associato al sud, al mondo inferiore dove stava il Sole e dunque ritenuto un pianeta solare. Da questa considerazione astrologica, derivò l’identificazione di Saturno con Phaeton, il figlio del Sole.

Ma la scelta dei Greci di identificare il pianeta con Crono, era legata anche all’estrema lentezza con cui esso compie la sua grande orbita. Questo itinerario così rallentato evocava lo scorrere eterno del tempo, che in greco non a caso si dice cronos. Il dio romano equivalente a Crono era Saturno, ma la sua corrispondenza si limitava in realtà alla sovranità nell’età dell’oro e all’aver inventato l’agricoltura. L’uccisione dei figli e la successiva Titanomachia furono episodi confluiti successivamente. Per i Romani Saturno era un dio benevolo che giunse in Italia dopo che Giove lo cacciò dall’Olimpo. Egli insegnò agli abitanti l’uso dell’agricoltura, civilizzandoli. Ma a un certo punto fu rapito al cielo e abbandonò la penisola. Per la sua scomparsa dalla terra, venne considerato un dio dell’oltretomba, particolare questo sconosciuto alla tradizione greca. Saturno è rappresentato come un uomo vecchio e triste, perché dopo la Titanomachia trascorse la sua tarda età in solitudine nell’Isola dei Beati. Il suo incedere lento e costante richiama inoltre l’idea di una lunga vita, altro motivo che lo associa agli anziani, ai padri e agli antenati.

La distanza del pianeta dal Sole infine gli conferisce un carattere freddo, diffidente e in genere malefico.

A Crono, pianeta di natura fredda e antitetico al caldo, e che traccia l’orbita più alta e distante dai luminari, furono assegnati i segni diametralmente opposti al Cancro e al Leone, Capricorno e Acquario, sia perché tali segni sono anch’essi freddi e invernali, sia perché l’opposizione non è in armonia con azioni benefiche. (Claudio Tolomeo, Le previsioni astrologiche, I, 18, 4)

Seppure non altrettanto copiosa come quella di Giove, l’iconografia di Saturno è comunque ampia. Egli viene rappresentato spesso in relazione all’età dell’oro, l’epoca in cui visse l’umanità quando al potere c’era appunto Crono, oppure come colui che mutilò il padre Urano, piuttosto che come divoratore dei suoi figli.

Proprio in questa versione lo vediamo raffigurato su una pelike attica a figure rosse attribuita al cosiddetto Pittore di Nausicaa (Fig. 5). La pelike era un recipiente ad anfora destinato a contenere dei liquidi e questo esemplare in stile classico risalente al 475-425 a.C., mostra Rea mentre porge a Crono la pietra avvolta in fasce al posto di Zeus. Crono con lo scettro in mano si accinge a prendere il fagotto per divorarlo e scongiurare così la profezia della sua detronizzazione. Il vaso è conservato al Metropolitan Museum di New York.

La prima tavola dedicata ai pianeti dall’incisore tedesco Sebald Beham del 1539, mostra invece Saturno con l’attributo di una grossa falce, facendogli così assumere il doppio significato di signore del mondo a seguito della deposizione di Urano che di signore della morte come voleva la tradizione romana (Fig. 6). Col braccio sinistro tiene un bimbo, probabilmente per ricordare l’usanza di mangiare i figli.

Come aveva stabilito l’astrologia, ai suoi piedi si trovano le costellazioni in cui il pianeta ha la sua casa, il Capricorno per quella diurna e l’Acquario per quella notturna. Conclude la stampa la scritta “Aurei Saeculi Princeps”, il principe dell’età dell’oro.

fig.5
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MARTE

Toccava poi a Marte, o meglio alla stella di Marte, occupare la posizione successiva. Si chiamava Pyroeides che letteralmente significa “dall’aspetto di fuoco”.

La terza stella è quella di Marte, secondo altri di Ercole. Essa segue l’astro di Venere per il seguente motivo: Vulcano aveva sposato Venere e la sua vigilanza impediva a Marte di arrivare a lei, tanto che questi non poté ottenere da Venere altro favore che il permesso di seguire, con la sua stella, quella di lei. Pertanto, siccome ardeva di veemente passione, a dimostrazione del fatto, chiamò l’astro Pyrois [ = fiammeggiante]. (Igino, De Astronomia)

Il tratto più evidente del pianeta Marte è sempre stato il suo colore, un arancione intenso che lo ha fatto assimilare al rosso. Igino ne diede una giustificazione passionale per rendere ragione della sua prossimità a Venere che è il pianeta immediatamente adiacente, escludendo la Terra che costituisce solo il punto d’osservazione.

La storia d’amore fra Venere e Marte o tra la greca Afrodite e Ares non fu un’invenzione di Igino per dare un senso alle disposizioni planetarie, ma era un mito assai noto a cui l’arte ha sempre dedicato un’attenzione particolare per i profondi e molteplici significati di un’attrazione fra la dea dell’amore e il dio della guerra. Perché, a dispetto della vicenda raccontata da Igino, indubbiamente Marte ha sempre evocato di primo acchito l’immagine del dio della guerra e dunque del sangue, quest’ultimo è il motivo sicuramente più conosciuto per giustificare il colore del pianeta. Il dio latino era l’eredità del greco Ares, per il cui pianeta i Greci adottarono la tradizione mesopotamica, così come per gli altri corpi celesti erranti. I Babilonesi vedevano nella stella rubina Nergal, colui che provocava la morte attraverso la guerra, la peste o la canicola. Ed è questa la visione del dio entrata nell’immaginario collettivo. Ares era figlio di Zeus e di Hera e la sua indole fu violenta sin dalla nascita. Il suo corpo era di statura sovrumana e le sue grida terribili. Con inaudita ferocia irrompeva sul campo di battaglia alla guida di un carro trainato da quattro cavalli furiosi, portando fra assetando gli eserciti di sangue. Suoi scudieri erano i figli Phobos e Deimos, parole greche per dire paura e terrore e non a caso i due piccoli satelliti di Marte scoperti in epoca moderna furono chiamati proprio così.

Ares dall’elmo d’oro, possente auriga di carri, intrepido salvatore di città, armato di scudo, coperto di bronzo, instancabile lanciere dal braccio robusto, baluardo d’Olimpo, padre di Nike gloriosa, sostegno di Temi, dominatore dei nemici, guida degli uomini giusti, maestro di coraggio, che ruoti il tuo disco infuocato fra gli astri dalle sette vie, dove i cavalli fiammanti ti portano in eterno lungo la terza orbita: ascoltami, tu che difendi i mortali e dai giovanile vigore, fa’ scendere dall’alto sulla mia vita la tua luce mite e la tua forza guerresca, così che io possa scrollare dalla mia testa l’odiosa viltà e piegare nel cuore le passioni che ingannano l’anima e frenare l’acuto impulso dell’ira, che mi spinge a entrare nella mischia agghiacciante. Tu dammi, o beato, il coraggio di rispettare le norme della pace, sfuggendo alla rissa dei nemici e alla morte crudele. (Inno ad Ares)

L’Inno ad Ares appartiene ai cosiddetti Inni Omerici, una raccolta di 33 componimenti da situarsi in un ampio intervallo temporale, dal VI secolo a.C. al V d.C., accomunati dalla metrica – si tratta di versi in esametri – e dalla lingua, il dialetto epico. Questi canti erano dedicati ciascuno a un dio e venivano eseguiti in apertura delle competizioni rapsodiche, tant’è che la loro classificazione letteraria esatta sarebbe quella di proemi e non di inni, termine attribuito alle composizioni a partire dal I secolo a.C. Quello ad Ares si distacca dagli altri sia stilisticamente che concettualmente. Ares è qui presentato come divinità della pace e del coraggio, concezione questa ascrivibile alla tradizione neoplatonica e orfica: per questo motivo si ritiene che il componimento sia tardo, probabilmente del V secolo d.C.

fig.7
fig.8

Un dipinto che riunisce gli attributi di Ares e il suo legame con Afrodite è quello che si trova su un’anfora attica a figure rosse dell’inizio del IV secolo a.C. (Fig. 7). La scena raffigura Ares sul suo cocchio al quale sono legati i cavalli di cui il particolare ne mostra tre. Il dio è intento a scagliare la sua lancia contro un gigante durante il celebre scontro fra gli dèi e le creature nate dalle gocce di sangue di Urano. Al suo fianco lo aiuta nella guida Afrodite, mentre un piccolo Eros inginocchiato sul dorso di uno dei cavalli, tende l’arco in direzione dei Giganti. L’anfora è attribuita al Pittore di Suessula ed è conservato al Louvre.

La terza tavola della serie intitolata “I Sette Pianeti con lo Zodiaco”, opera dell’incisore rinascimentale Sebald Beham e datata 1539, è quella dedicata al pianeta Marte raffigurato di spalle col viso rivolto verso la fiamma che esce dalla fiaccola che regge nella mano destra (Fig. 8). E’ il simbolo del precedente astro Pyroeides che rende ragione del temperamento del dio e del colore del pianeta. Nella mano sinistra tiene la spada, simbolo di guerra.

Ai suoi piedi sono raffigurate le costellazioni zodiacali in cui Marte ha la casa: lo Scorpione per il giorno e l’Ariete per la notte, mentre in calce vi è la descrizione in latino del dio: Bellorum autor, il fomentatore di guerre.

 

VENERE

Penultimo pianeta della tradizione antica era Venere.

La quarta stella è quella di Venere, detta Lucifero, pur se qualcuno ha pensato fosse quella di Giunone. L’hanno chiamata anche Espero, come riportano molti racconti, e sembra essere più grande di tutte le altre stelle. A parere di alcuni era il figlio di Aurora e di Cefalo, la cui bellezza eccelleva su tutti gli altri. Per tale motivo, si dice, rivaleggiasse con Venere e, secondo Eratostene, fu proprio per questo che venne chiamata stella di Venere. La si vede al sorgere ed al tramontare del sole. Pertanto, come è stato già detto, a giusta ragione viene definita Lucifero [=che porta la luce] ed Espero [=stella della sera]. (Igino, De Astronomia)

Lucifero ed Espero sono i due nomi con cui è conosciuto il pianeta poiché, essendo insieme a Mercurio vicino al Sole, lo si vede sempre o poco prima dell’alba o poco dopo il tramonto. I nomi greci erano Phosphoros e Hesperos, da phos che significa luce e phero portare, oppure da espera che significa sera.

Come di Marte balza subito all’occhio il colore rosso, Venere si distingue per la sua spiccata luminosità. Per via della sua atmosfera densissima, ha una capacità riflettente pressoché unica, tant’è che è il pianeta più luminoso del Sistema Solare. Gli antichi non ebbero dubbi sull’identità divina che vi stava dietro: la bellezza era ciò che caratterizzava la stella, una bellezza che per la sua luce non poteva che essere femminile e così i Babilonesi ci videro Ishtar, i Greci Afrodite e i Romani Venere, in ogni caso la dea dell’amore.

Canterò la bella, veneranda Afrodite dalla corona d’oro, che protegge le mura dell’intera Cipro circondata dal mare, dove l’umido soffio di Zefiro la portò sopra l’onda del mare risonante, nella morbida spuma. Le Ore dall’aureo diadema la accolsero con gioia e le fecero indossare vesti divine; sul capo immortale le posero una bella corona d’oro, ben lavorata, e ai lobi forati appesero fiori d’oricalco e d’oro prezioso; le ornarono il collo delicato e il petto bianchissimo con collane d’oro, che le stesse Ore dall’aureo diadema indossano quando si uniscono all’amabile danza degli dèi, nella casa del padre. Quando terminarono di ornare le sue membra, la presentarono agli immortali: vedendola, essi le davano il benvenuto, le tendevano le mani, e ciascuno desiderava portarla a casa sua come legittima sposa, poiché ammiravano l’aspetto di Citerea coronata di viole. Salve, dea dolcissima dagli occhi brillanti: concedimi la vittoria in questo concorso, e ispira il mio canto. E io canterò a te e anche un’altra canzone. (Inno a Venere)

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Il VI inno omerico dedicato ad Afrodite, racconta della sua nascita. Afrodite nacque dalla schiuma marina che si formò attorno ai genitali recisi di Urano. Quando Crono evirò suo padre, ne gettò il membro al largo del Mediterraneo e dalle gocce di sangue che caddero sulla terra, nacquero le Erinni e i Giganti, mentre dalla spuma che nell’acqua si formò attorno a esso, nacque la dea dell’amore. La radice del suo nome, aphros, significa proprio schiuma. Afrodite è detta Citerea perché Citera fu la prima isola cui giunse prima di approdare a Cipro.

Una pelike attica a figure rosse del 370-360 a.C. rappresenta Afrodite al riparo di una grande conchiglia poco dopo la sua nascita (Fig. 9). Accanto a lei stanno Ermes col caduceo e Poseidone col tridente, mentre suo figlio Eros con un arco immaginario simula il lancio di una freccia d’amore verso la madre.

La presenza del dio del mare è chiaramente legata all’ambiente in cui si svolge l’azione, mentre la scelta di inserire Ermes tra i personaggi può avere una duplice valenza: quella di accompagnatore della dea appena nata al consesso degli dèi, essendone lui il messaggero, e quella di amante della dea nella celebre storia di Ermafrodito, il figlio di Ermes e Afrodite. La funzione del piccolo Eros è senz’altro di attributo per identificare ancora meglio la dea, visto che lei stessa era appena venuta alla luce e non poteva certo essere già madre. Il bel vaso è custodito al Museo Archeologico Nazionale di Salonica.

Nel 1539, l’incisore tedesco Hans Beham stampava le sue tavole dedicate ai pianeti e allo zodiaco. La stampa nell’accezione moderna del termine era nata solo da un secolo e oltre ai primi testi, si stampavano anche i primi disegni. Uno dei precursori in questo senso fu il tedesco Albrecht Dürer, al cui stile ci si richiamò anche dopo la sua morte. Beham fu uno dei maggiori esponenti e dedicò il quinto disegno della serie a Venere (Fig. 10). Sotto il numero 5 della lastra, il nome Venus sventola su un nastro trasportato dal vento e sotto di esso una figura dal volto cerchiato di luce, fissa con lo sguardo una grossa stella che tiene nella mano. Ma scorrendo il corpo con gli occhi, è evidente che la figura rappresentata è un uomo. Non dunque la dea è stata raffigurata, ma quel Lucifero o Espero figlio di Aurora e Cefalo che prima di lei, aveva incarnato il pianeta. Ai suoi piedi le costellazioni del Toro e della Bilancia, le due case che l’astrologia aveva assegnato a Venere. Il Toro era il domicilio notturno, in accordo con la teoria secondo cui la Luna aveva residenza nel Cancro – col quale condivideva il carattere femminile – e inaugurava, sotto questo aspetto, tutte le costellazioni zodiacali precedenti fino all’Acquario. Sempre per gli stessi motivi, la Bilancia era invece la sede diurna di Venere appartenendo alla serie di segni con origine nel Leone, a cui era legato il Sole, elemento maschile, e termine nel Capricorno, ultima costellazione dell’anno.

In calce la caratterizzazione del pianeta: Voluptatum parens, ossia madre della voluttà, definizione questa che riporta all’identità della dea discesa da Urano.

MERCURIO

Prosegue la rassegna il pianeta più vicino al Sole, Mercurio.

Quinta è quella di Hermes, Stilbon, luminosa e piccola. Fu data ad Hermes perché questo dio fu il primo a definire la disposizione del cielo e le collocazioni delle stelle, a misurare le stagioni e mostrare i tempi favorevoli attraverso segnali celesti. E’ chiamato Stilbon per il fatto che il dio fa questa immagine splendente. (Eratostene, Epitome dei Catasterismi, 43)

“Il dio fa questa immagine splendente”: è quindi Hermes che assegna un grande splendore alla sua stella. Mercurio in realtà, essendo il pianeta più vicino al Sole, ne rimane praticamente sempre abbagliato, senza poter mettere in evidenza la propria luminosità. Ma forse, proprio perché è possibile vederlo nonostante la posizione sfavorita, se ne è dedotto che doveva essere intrinsecamente splendente. Come divinità Mercurio era il figlio di Zeus e di Maia, una delle sette Pleiadi, le figlie di Atlante ed era un dio dalle numerosissime connotazioni. Per il furto della mandria sacra ad Apollo, era considerato il protettore dei ladri, ma anche del commercio e della buona sorte poiché nell’antichità i commercianti, spesso in viaggio, si trovavano esposti al rischio di agguati. Era inoltre il patrono di tutti i giochi ginnici della Grecia, come testimoniano i ginnasi che sempre erano posti sotto la sua protezione.

Ermes fu anche l’inventore della lira da un guscio di tartaruga, lira che poi donò ad Apollo per farsi perdonare del furto del bestiame; grazie al suo intelletto acuto e scaltro, fu inoltre l’autore di parecchie altre invenzioni, come l’alfabeto e i numeri. Per il suo carattere veniva spesso descritto come “il dio dagli oscuri pensieri”; dal nome greco infatti è poi derivato l’aggettivo “ermetico” per indicare un carattere imperscrutabile o una chiusura sigillata. Ermes era ricordato infine con la funzione di psicopompo, ossia di accompagnatore delle anime nell’oltretomba. In greco infatti psyche significa anima mentre pompòs è colui che conduce, specialmente nelle processioni.

Indubbiamente però il dio Mercurio-Ermes si è affermato nell’immaginazione popolare per il ruolo di messaggero degli dèi. Fu Zeus a nominarlo tale e il pianeta evoca proprio questo tratto del dio. Ermes, coi suoi calzari alati, si spostava velocemente dal cielo alla terra per portare i messaggi divini, proprio come fa il pianeta Mercurio che in soli tre mesi compie una rotazione intorno al Sole.

Farò di te il mediatore perfetto fra uomini e dèi, e fra tutti sarai caro al mio cuore onorato. (Inno ad Ermes, 526-528)

In qualità di viaggiatore era considerato il protettore dei viandanti e delle strade e per questo motivo, lungo le strade greche o accanto alle porte delle case o della città, si trovavano particolari statue chiamate “erme”.

Ai primordi dell’età classica, fra il 500 e il 450 a.C, risale una lekythos attica a figure rosse attribuita al Pittore di Tithonus (Fig. 11). Il vaso si trova al Metropolitan Museum di New York e mostra il dio Hermes con i suoi attributi distintivi dei sandali alati e del caduceo. Indossa la clamide, un mantello di origine tessalica o macedone, corto e leggero, usato specialmente per cavalcare, mentre alla spalla è appeso il petasos, un cappello da viaggio caratterizzato da un’ampia visiera. Hermes è rappresentato con barba e capelli lunghi, segno di età adulta.

Al tardo Rinascimento appartiene invece la VI tavola della serie dedicata ai pianeti e allo zodiaco, che porta il nome dell’incisore tedesco Hans Beham (Fig. 12). Sotto il numero 6 che numera la stampa, una fascia gonfiata dal vento esibisce il nome Mercurius. Il dio è raffigurato col cappello alato, attributo più tardo alternativo ai calzari con le ali. La mano destra impugna il caduceo ossia la verga d’oro che Hermes ricevette da Apollo, attorno alla quale si attorcigliarono pietrificandosi due serpenti. La sinistra regge invece una cornucopia, simbolo dei doni dati all’uomo in abbondanza gratuitamente.

Ai suoi piedi vi sono le costellazioni in cui il pianeta ha la casa: i Gemelli di giorno, la Vergine di notte.

In calce alla scena, la scritta latina che caratterizza il dio: Mercatorum fautor, ossia il protettore dei mercanti, come voleva la tradizione romana che esaltava questo particolare aspetto del greco Ermes.

fig.11
fig.12

mmagini:

  • Figura 1, 5, 7, 9, 11: www.theoi.com
  • Figure: 2, 3, 4, 6, 8, 10, 12: http://vk.com/wall-34359494_663

Fonti:

  • Alfredo Cattabiani, Planetario, Ed. Mondadori, 2010
  • Arato di Soli, I fenomeni e i pronostici, Ed. Arktos, 1984
  • Caio Giulio Hygino, Fabulario delle stelle, Ed. Sellerio, 1996
  • Eratostene, Epitome dei catasterismi, Ed. ETS, 2010
  • Esiodo, Teogonia, Ed. BUR, 2004
  • Hugo Winckler, La cultura spirituale di Babilonia , Editori Riuniti, 2004
  • Inni Omerici, Ed. BUR, 2000

Internet:

  • Wikipedia - http://en.wikipedia.org/wiki/Hans_Sebald_Beham
  • www.treccani.it/enciclopedia/astrologia/
  • www.treccani.it/enciclopedia/sol_(Enciclopedia-dell'-Arte-Antica)/

 

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