Il mese di Maggio nel mito e nell'arte
 

Ofiuco

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Ofiuco è chiamata dai Greci la costellazione che i Romani conoscevano come Serpentario. Entrambe le parole significano “colui che tiene il serpente” (serpente in greco si dice ophis) ed infatti proprio una simil figura si vede nell’uranografia di Hevelius (Fig 9).

Il Serpente è a sua volta una costellazione, la quale viene però divisa in due parti dall’Ofiuco; si parla perciò di Testa del Serpente (Serpens Caput) e di Coda (Serpens Cauda).Il personaggio che con grande sforzo sta cercando di domare il gigantesco e ribelle serpente è Asclepio, colui che divenne il dio e il patrono della medicina, Esculapio per i Romani, venerato in tutta la Grecia fin dal VI secolo a.C., e dal III secolo a.C. anche a Roma.

Si narra che Apollo, il dio della luce, ma anche della medicina, della musica e della poesia, si unì alla figlia di Flegias, re della città di Orcomeno in Beozia e figlio di Ares, il dio della guerra. Coronide era il nome della fanciulla ed Epidauro era la città dell’Argolide che ospitò il loro amore. Come rientra nel volere degli dèi, nessuna unione di un dio con una mortale è mai sterile e così, Coronide dopo essersi congiunta al dio, portava nel grembo il frutto del suo congiungimento.

Ma, come ci racconta il poeta Pindaro:

pur portando in grembo il puro seme del dio, non seppe attendere l’ora della festa nuziale, il tempo in cui risuona il canto imeneo, quando le vergini compagne della sposa liete intonano canzoni nella sera. Essa vagheggiava l’ignoto, come tanti altri. La specie più stolta fra gli uomini è quella che disprezza il paese in cui si è nati e anela a cose lontane, inseguendo con folli, con vane speranze le ombre. (Pindaro, Pitica III, 15-23)

Coronide infatti tradì Apollo unendosi poco tempo dopo con uno straniero venuto dall’Arcadia e, così facendo, non rispettò l’usanza arcaica secondo la quale una donna fecondata da un dio doveva sposarsi con un uomo del suo villaggio, scelto per lei e come padre putativo dell’eroe che sarebbe nato. Il matrimonio doveva essere celebrato solennemente e festosamente con il tipico canto nuziale, l’imeneo, che veniva intonato alla sera, momento in cui venivano celebrate le nozze.

Coronide dunque venne meno due volte alla tradizione, avendo violato le norme del matrimonio ed essendosi unita ad uno straniero. Apollo, dio della luce, che tutto vede, non tollerò l’affronto della fanciulla,

perché il Lossia coglie sempre nel segno e nessuno, né uomo né dio, può ingannarlo, con atti o pensieri.(Pindaro, tica II, 29-30)

Lossia è un epiteto di Apollo e significa oscuro in riferimento ai suoi oracoli. Il dio affidò allora alla sorella Artemide il compito di punire Coronide.

Essa, prima ancora di portare il bimbo al suo termine col soccorso di Ilizia, la dea che aiuta le madri, fu stroncata dall’arco d’oro di Artemide, nella sua stanza: così, per volontà di Apollo, discese nella dimora di Ade. La collera dei figli di Zeus non è mai vana. (Pindaro, Pitica III, 8-13)

Tuttavia quando la ragazza fu messa sulla pira funebre e le fiamme ormai l’avvolgevano, Apollo non sopportò che perisse anche il figlio suo, innocente. Con un balzo si scagliò in mezzo al fuoco ed estrasse il piccolo dal grembo materno. Così nacque Asclepio, che Apollo affidò al centauro Chirone di Magnesia,

perché gli insegnasse a guarire le dolorose malattie degli uomini. E quanti venivano a lui, portatori di ulcere nate nelle loro carni, o feriti nel corpo da armi di bronzo o da un lancio di pietre o straziati dal sole infuocato dell’estate o dal gelo degli inverni, lui li congedava liberati ciascuno dal suo male, gli uni curandoli con blandi incantesimi, gli altri con pozioni ristoratrici; ora applicava alle membra ogni sorta di rimedi, ora invece li riportava eretti mediante incisioni. (Pindaro, Pitica III, 46-53)

Ma, come la madre, anche Asclepio trasgredì ad una legge: quella secondo cui, una volta morti, dall’Ade non si può più ritornare. Asclepio invece faceva risuscitare i morti, fra i quali Ippolito, figlio di Teseo, e Glauco, figlio di Minosse. Permettere che i morti tornassero in vita, significava sovvertire l’ordine del mondo, mettere in discussione la mortalità degli uomini e di conseguenza l’immortalità degli dèi, unici a poter godere di questo privilegio.

Significava riproporre in chiave umana quanto era successo all’inizio dei tempi quando i Titani, creature terrigene, attaccarono le sedi olimpiche, minando la gerarchia del mondo. Tutto questo non era ammissibile e Zeus, garante dell’ordine cosmico, colpì Asclepio con la sua folgore, uccidendolo.

Bisogna formulare agli dèi richieste adeguate alla nostra natura mortale, e guardare in basso e ricordarci della nostra condizione. (Pindaro, Pitica III, 59-60)

ci ammonisce Pindaro.

Come ci racconta Igino, Asclepio fu posto in seguito fra le stelle da Zeus stesso “per riguardo alla sua abilità e per Apollo suo padre”. E ci spiega anche il perché del serpente fra le mani:

quando venne costretto a guarire Glauco, egli, chiuso in un luogo nascosto, stava meditando sul da farsi con un bastone tenuto in mano. Un serpente, si dice, si arrampicò su quel suo legno. Esculapio, spaventato, lo uccise, mentre quello fuggiva, colpendolo più volte con il bastone. In seguito, viene tramandato, un altro serpente entrò nello stesso luogo. Portava in bocca un filo d’erba che appoggiò sulla testa del primo, dopodiché entrambi scapparono via di lì. Utilizzando quell’erba Esculapio riuscì a resuscitare Glauco. Pertanto, si racconta, il serpente fu posto, allo stesso tempo, sotto la protezione di Esculapio e nel firmamento. Questa consuetudine indusse i posteri a tramandare l’utilizzo dei serpenti da parte dei medici.

Ed infatti Asclepio è sempre rappresentato con un bastone attorno al quale si attorciglia un serpente. Questo bastone con serpente è divenuto poi il simbolo dell’arte medica; le insegne delle farmacie ne sono un esempio. Asclepio in quanto figlio di un dio e di una mortale non era immortale, tuttavia il culto che sorse in suo onore lo fece annoverare fra le divinità. Epidauro, sua città natale, fu il centro di culto maggiore, con un grande santuario dedicato a lui.

Continui pellegrinaggi da ogni parte della Grecia avevano luogo, soprattutto da parte di ammalati che speravano di ottenere lì la guarigione. Nel 430 a.C. quando Atene fu colpita dalla peste, vi fu una vera e propria esplosione del culto, che venne importato in tutte le grandi città greche. Nel 295 a.C. la venerazione del dio giunse a Roma, mentre il suo tramonto avvenne nel 395 d.C. quando l’imperatore romano Teodosio, ormai di stampo cristiano, proibì tutti i culti pagani ordinando la distruzione dei templi.


 

Bilancia

 

Quella che si illumina nelle notti primaverili non è una bilancia comune, non pesa infatti i corpi, ma è tarata per pesare qualcosa di ben più importante: il destino. Se mai vi capitasse di salirvi, sappiate che state salendo sulla Bilancia d’Oro di Zeus (Fig. 10), opera di Efesto, il dio fabbro, una bilancia fatale, che può rivelarsi preziosa o maledetta, perché su di essa sapreste se siete destinati ad essere dei vincenti o dei perdenti.

Due furono le volte che il signore dell’Olimpo la usò. Entrambe le volte fu durante la luttuosa guerra di Troia, giunta ormai al decimo e ultimo anno.

La guerra, com’è noto, si scatenò dopo che Paride, principe di Troia, rapì Elena di Sparta, la donna più bella, moglie del re Menelao, fratello quest’ultimo di Agamennone, signore della cittadella di Micene, a quel tempo il più potente fra i capi greci.

Il riscatto di Elena fu senz’altro il pretesto per attaccare quella che era una città estremamente ricca, grazie alla sua posizione strategica nei pressi dello stretto dei Dardanelli. Da lì infatti, Ilio, altro nome della città di Troia, poteva controllare i traffici dei Greci occidentali verso il Mar Nero; conquistarla significava esercitare un potere di tipo doganale e quindi arricchirsi grazie ai continui transiti di navi.

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Gli abitanti di Ilio erano gente pacifica, rispetto ai rissosi Achei capitanati da Agamennone. Ma la loro mitezza non valse a far prevalere la pace, che anzi non arrivò se non dopo dieci lunghissimi e terribili anni di sangue, e solo in seguito all’incendio della città e ad un massacro selvaggio di tutti i suoi cittadini da parte dei Greci d’Occidente.

Era dunque il decimo anno di guerra e, dopo vari scontri a cui presero parte accanto ai guerrieri gli dèi stessi, Zeus ordinò alle divinità di abbandonare il campo e lasciare che le sorti fossero opera unicamente dei due eserciti. Ma entrambe le armate erano forti e tenaci, tanto che né gli Achei né i Troiani erano in grado di aggiudicarsi la mossa decisiva.

inché fu mattino e il giorno saliva,sempre i dardi dalle due parti colpivano, cadeva la gente;ma quando il sole raggiunse il mezzo del cielo,allora il padre agganciò la bilancia d’oro:e due Chere vi pose di morte lungo strazio,dei Teucri domatori di cavalli e degli Argivi chitoni di bronzo;la tenne sospesa pel mezzo; precipitò il giorno fatale degli Achei.Le Chere degli Achei verso la terra nutrice di moltipiombarono, quelle dei Teucri salirono al cielo vasto.Dall’Ida forte allora tuonò, e fiammeggiantelampo scagliò fra l’esercito acheo; essi a vederlorestarono allibiti, li prese tutti verde terrore.(Iliade, VIII, 66-77)

Chiaro messaggio che senza l’intervento divino nulla è possibile all’uomo, dovette dunque intromettersi Zeus, il quale stava osservando la battaglia dal monte Ida, nei pressi di Troia. Lo fece servendosi appunto della bilancia e pose, in rappresentanza dei due eserciti, una Chera su ciascun piatto, l’una degli Argivi, gli Achei, l’altra dei Teucri, i Troiani.

Le Chere erano divinità funeste, figlie della Notte, personificazioni della morte. La Chera più “pesante”, cioè il destino più rovinoso, avrebbe significato la sconfitta del popolo che rappresentava: in questa prima pesatura, toccava agli Achei essere vinti, mentre la Chera dei Troiani non aveva quasi peso, segno che non vi era morte per loro, ed il loro piatto trionfava alto. E così, quel giorno, la vittoria fu dell’esercito di Ilio. Ma fu la seconda pesatura di Zeus quella decisiva per l’esito della guerra. Stavolta non le Chere degli Argivi e dei Troiani salirono sui piatti, ma quelle di due uomini, i due più valorosi guerrieri che la mitologia ricordi: si trattava delle Chere di Achille, principe dei Mirmidoni, alleato di Agamennone, e di Ettore, figlio di Priamo, il re di Troia.

Era il giorno fatale, quello che avrebbe deciso la morte di uno di loro, e di conseguenza la vittoria dei Greci o dei Troiani. A differenza della prima volta però, Zeus fece tornare in campo gli dèi lasciandoli liberi di schierarsi come preferissero: dalla parte degli Achei si schierarono così Era, Atena, Poseidone, Ermes ed Efesto, mentre dalla parte dei Troiani combatterono Ares, Apollo e Artemide. La proverbiale ira di Achille per la morte del cugino Patroclo, avvenuta per mano di Ettore, divenne quel giorno così indomabile che, era impossibile ferirlo mortalmente ed egli, come una furia, fece strage di Troiani nell’attesa di scontrarsi con l’unico nemico che desiderasse uccidere: Ettore.

L’esercito avversario di fronte a tanta ferocia, si mise in fuga rientrando nella cittadella; le porte Scee della città di Troia vennero però chiuse prima che il principe Ettore le varcasse insieme agli altri guerrieri, e così, solo, si trovò faccia a faccia con Achille. Ettore, guerriero valoroso, ma non di indole bellicosa, fu colto dalla paura. Scappò correndo attorno alle mura della città, inseguito senza tregua da Achille, assetato del suo sangue.

Così essi girarono intorno alla rocca di Priamo tre volte con rapidi piedi: tutti gli dèi li guardavano. (Iliade, XXII, 165-166)

Come nell’episodio precedente, gli dèi sono di nuovo assenti: prima per volere di Zeus, adesso per volontà propria, quasi temessero anche loro l’ira di Achille. Ma anche in questo caso, nulla è possibile all’uomo senza l’intervento divino, ed ecco di nuovo Zeus afferrare la bilancia del destino:

Ma quando arrivarono la quarta volta alle fonti, allora Zeus, agganciò la bilancia d’oro, le due Chere di morte lunghi strazi vi pose,quella d’Achille e quella d’Ettore domatore di cavalli, la tenne sospesa pel mezzo: d’Ettore precipitò il giorno fatale e finì giù nell’Ade; l’abbandonò allora Apollo. (Iliade, XXII, 208-213)

Il destino di Ettore era ormai deciso. Con indosso l’armatura che aveva strappato a Patroclo il giorno in cui lo ammazzò, Ettore venne trafitto nel collo dalla lancia di Achille. Queste furono le sue ultime parole:

Va’, ti conosco guardandoti! Io non potevo persuaderti, no certo, ché in petto hai un cuore di ferro. Bada però, ch’io non ti sia causa dell’ira dei numi, quel giorno che Paride e Febo Apollo con lui t’uccideranno, quantunque gagliardo, sopra le Scee”. Mentre diceva così, l’avvolse la morte: la vita volò via dalle membra e scese nell’Ade, piangendo il suo destino, lasciando la giovinezza e il vigore. (Iliade, XXII, 356-363)

Così dunque si preparava Ilio a cadere nelle mani spietate dei Greci, lontani da dieci anni dalle loro famiglie, pronti a qualsiasi cosa pur di mettere la parola fine a quella città. Era circa il 1174 a.C. quando Troia cadde per sempre, e quanto è scampato al fuoco che la divorò, è visibile sulla piccola collina di Hissarlik, in Turchia, che, ormai quasi anonima, custodisce le gesta dei guerrieri leggendari che per dieci anni si batterono alle sue porte, nonché la testimonianza storica della guerra delle guerre: l’Iliade.


 

Ercole

 

Per molto tempo la costellazione di Ercole ha avuto il nome di Inginocchiato (in greco Engònasin). Un uomo in ginocchio fu ciò che videro gli antichi astronomi greci in questo gruppo di stelle, senza identificarlo però con un personaggio preciso:

Una sagoma di inginocchiato, detta con il termine grecodi Engònasin, della cui origine non risulta alcun ragguaglio sicuro, solleva la sua luce sulla destra proprio alla fine dei Pesci. (Manilio, Astronomica, V, 645-647)

Tuttavia quell’uomo nella posizione sia di chi si sottomette sia di chi è stanco, ricordò sempre l’immagine di Ercole, stremato dopo le dodici imprese condotte quando era servo del cugino Euristeo.

La costellazione dell’Inginocchiato fu così successivamente ribattezzata in Ercole (Fig. 17 ). E al nome di Ercole il pensiero va a un uomo dalla forza inaudita, entrato nella memoria collettiva soprattutto per le dodici fatiche.

Della sua prestanza fisica Seneca fa dire al coro di una delle sue tragedie:

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Le sue membra non sono accessibili a nessuna ferita:sente il ferro spuntato, l’acciaio è troppo flessibile;sul nudo corpo la spada si spezza e il sasso rimbalza e disprezza il fato e provoca la morte col suo corpo indomito. Non potevano colpirlo le punte della lancia, non l’arco teso da freccia scitica, non i dardi che porta il freddo Sarmata o i Parti che, posti in una regione torrida, dirigono le frecce contro i vicini Nabatei, più sicuri dei colpi degli arcieri cretesi. Col suo corpo ha abbattuto le mura di Ecalia; nulla gli si può opporre; ciò che si prepara a vincere già è stato vinto – che piccola parte è caduta per le ferite? Il suo aspetto troppo minaccioso ha avuto il potere del destino, ed è sufficiente avere visto gli sguardi minacciosi di Ercole. (Seneca, Ercole sul monte Eta, 151-166)

Questa descrizione è sicuramente incisiva e la maggior parte delle persone che magari ha poca confidenza con la mitologia greca, limita la propria conoscenza del personaggio a questa immagine. Ma Ercole fu davvero solo una montagna di muscoli oppure riserva qualche altra peculiarità? La risposta è sì: Ercole è un personaggio molto complesso, sia per quanto riguarda il numero di imprese – ben più di dodici nella sua esistenza – sia per il ruolo che ha avuto nella delicata sfera del rapporto degli esseri umani col divino: subordinazione ma anche, nel suo caso, assunzione a divinità. Egli infatti è stato il primo eroe mortale a divenire uno degli dèi olimpici. Raccontare per esteso la sua vita richiederebbe spazi che esulano da questo sito, tuttavia fra le innumerevoli vicende di cui è stato protagonista, si possono individuare alcuni episodi chiave per comprendere l’essenza dell’eroe. Un famoso indovino invocato spesso nei miti greci di nome Tiresia, centrò in pieno attraverso una delle sue profezie gli avvenimenti fondamentali che avrebbero reso Ercole l’eroe più acclamato e venerato del mondo occidentale antico. Interrogato dalla madre Alcmena sul destino del figlio ancora di pochi mesi, rispose:

Tale uomo al cielo che porta le stelle costui deve ascendere, tuo figlio, eroe dal petto largo, di tutte le bestie e degli altri uomini più forte. E’ suo destino abitare presso Zeus, dopo compiute dodici fatiche, e tutta la sua mortalità la tratterrà una pira trachinia. Sarà chiamato genero degli immortali che hanno spinto queste fiere che vivono rintanate a massacrarlo bambino. Verrà il giorno in cui alla vista di un cerbiatto nel giaciglio il lupo dai denti aguzzi non vorrà fargli del male. (Teocrito, Idilli, XXIV Eraclino, 79-87)

Il destino di Ercole dunque era quello di essere il più forte, di dover compiere dodici fatiche, di morire su una pira e infine, a ricompensa di un’esistenza tribolata, di ascendere al cielo dimorando fra gli dèi dell’Olimpo. Gli ultimi due versi poi ci svelano che Ercole sarebbe stato un portatore di pace: il cerbiatto e il lupo avrebbero convissuto. Con altre parole il messaggio di salvezza viene ribadito ancora da Seneca nell’altra sua tragedia dedicata all’eroe:

Grazie alla mano di Ercole, regna la Pace fra l’Aurora e il Vespero, e nel luogo in cui il sole a mezzogiorno nega le ombre ai corpi; tutta la terra bagnata dal lungo circuito di Teti è stata sottomessa dalla fatica di Alcide. (Seneca, La follia di Ercole, 883-888)

Teti è nota soprattutto in quanto madre di Achille, ma qui è nominata come divinità del mare per indicare il mondo subacqueo. Alcide invece era il nome di Ercole alla nascita. E proprio partendo dai suoi nomi, iniziamo allora a conoscere il nostro personaggio, poiché in essi si celano particolari importanti del suo carattere. Alcide deriva dal greco alché che significa coraggio. E di coraggio Ercole ne avrebbe avuto bisogno più di chiunque altro. La sola forza fisica infatti, per quanto unica, non gli sarebbe bastata se non fosse stata accompagnata da un’altrettanto straordinaria forza d’animo: Ercole fu perseguitato per tutti i suoi giorni da una divinità. A causa di questo odio la sua vita fu un immane e incessante susseguirsi di prove al limite della sopportabilità e potenzialità umana. Pochi furono i momenti a casa, innumerevoli quelli lontano, quasi sempre la morte durante i suoi viaggi gli ventilava il suo respiro. Fu così che l’incessante ostilità cui doveva far fronte, gli valse un nuovo nome. Cominciamo perciò a chiamarlo col suo nome greco, dato che quello latino di Ercole è un adattamento fonetico che non contiene più l’importante etimologia che vi sta dietro: Ercole è Eracle, dal greco Heras, Era, e kleos, gloria. Eracle significa dunque “gloria di Era” ed Era fu la divinità che tanto lo esecrò. Perché? Era, la Giunone dei Romani, era la consorte di Zeus; e Zeus come già aveva fatto tante altre volte, la tradì. L’amante era una donna mortale, Alcmena, figlia del re di Micene, e dalla loro unione nacque appunto Eracle. La regina degli dèi non perdonò mai questo adulterio a Zeus, e così cercò vendetta con tutte le sue forze attraverso un’implacabile persecuzione di quel figlio non suo. Ma Eracle superò sempre tutte quante le prove pretese dalla dea, ottenendo così la gloria. Per questo gli fu dato il nuovo nome di “Gloria di Era”: Eracle! Come dice infatti lei stessa in preda alla collera:

A sua lode volge il mio odio, e se ordino azioni troppo crudeli, ho solo dimostrato chi è suo padre, ho fatto strada alla sua gloria. (Seneca, La follia di Ercole, 34-36)

Ci si può chiedere come mai, di tutti i figli di Zeus nati da un legame extraconiugale, Era si accanì così tanto proprio con Eracle. Direi che la risposta si trova nel fondamento stesso della sua nascita. Come narra il poeta Esiodo:

Il padre degli dèi e degli uomini volgeva nel suo animo altro disegno: come creare un difensore contro il pericolo e a vantaggio degli dèi e degli uomini industri. (Esodo, Lo Scudo di Eracle, 27-29)

l padre degli dèi desiderava dunque consegnare al genere umano e a quello divino un figlio che fosse il più forte di tutta la nostra stirpe, un figlio capace di proteggere e difendere uomini e dèi impavidamente, un “Alcide” appunto. Ecco perché Era non poteva accettare che un’altra fosse la donna con cui il consorte generò un uomo così esclusivo. Viene spontaneo chiedersi ora chi era Alcmena, fanciulla di stirpe mortale scelta per dare compimento a un così nobile disegno. Ebbene, bisogna sapere che il padre degli dèi aveva stabilito anche che il nascituro doveva discendere da Perseo, valoroso eroe nato dall’unione del dio con una regina terrena e che aveva già dato prova di animo impavido uccidendo la Gorgone Medusa. Quel nuovo figlio poi avrebbe ereditato il trono di Micene, città greca dell’Argolide, alla morte del re Elettrione:

Ascoltatemi, o dèi tutti, e voi tutte, o dee, ch’io dica quello che il cuore m’ordina in petto: oggi un uomo, Ilitia, strazio del parto, farà apparire, che regnerà su tutti i vicini, della stirpe degli uomini che vengono dal mio sangue”.(Omero, Iliade, XIX, 101-105)

Ilitia è la dea delle partorienti, mentre la stirpe a cui allude Zeus è appunto quella di Perseo. Alcmena soddisfaceva la condizione imposta essendo la nipote di Perseo, e per questo Zeus volle generare insieme a lei il difensore dell’umanità e delle divinità. Il padre degli dèi conquistò l’amore di Alcmena apparendole sotto le sembianze del marito Anfitrione, che ella attendeva di ritorno dalla guerra da un momento all’altro. Dovette addirittura triplicare la durata della notte per concepire un figlio dalla forza così dirompente. Ma nulla è impossibile a Zeus e al termine dei nove mesi di gravidanza, poté dare agli dèi l’annuncio che abbiamo letto prima circa il successore di Elettrione. Ma la consorte divina, oltraggiata, approfittò del vincolo imposto da Zeus per dare inizio alla vendetta:

Era d’un balzo lasciò la vetta d’Olimpo, rapida giunse ad Argo d’Acaia, dove sapeva, ch’era la nobile sposa di Stènelo figlio di Perseo; questa portava in grembo un caro figlio, era al settimo mese; essa lo spinse alla luce benché fosse immaturo, e fermò il parto di Alcmena, trattenne le Ilitie: e lei stessa annunciandolo disse a Zeus Cronide:Zeus padre, candida folgore, ti metterò una parola nel cuore: è già nato l’uomo nobile che regnerà sugli Argivi, Euristeo, figlio di Stènelo Perseide, tua stirpe: e non è indegno di regnare sugli Argivi”. (Omero, Iliade, XIX, 114-124)

Euristeo divenne dunque il sovrano di Micene, mentre suo cugino Eracle non sarebbe stato… nessuno. Non solo, Era non si sentiva comunque soddisfatta del fallimento arrecato a Zeus: voleva eliminare per sempre e il prima possibile Eracle. Per questo, quando il bimbo aveva solo dieci mesi, inviò due serpenti affinché durante il sonno uccidessero lui e il fratello Ificle, nato il giorno dopo e figlio di Anfitrione. Fu in questa occasione che Eracle dimostrò la sua forza straordinaria e il suo disprezzo per il pericolo. L’episodio, per l’eccezionalità che lo caratterizza, è stato tramandato in versi e in prosa da quasi tutti gli autori antichi. La versione che proponiamo è del poeta greco Teocrito vissuto nel III secolo a.C., il quale ha dedicato appositamente un idillio all’infanzia di Eracle:

Allorché a mezzanotte l’Orsa si volge verso il tramonto di fronte al possente Orione, e questi mostra la grande spalla, a quell’ora l’astuta Era due mostri orribili, serpenti drizzatisi nelle fosche spire, lanciò verso l’ampia soglia, presso gli stipiti incassati delle porte del palazzo, minacciando che avrebbe fatto mangiare il piccolo Eracle. Ed essi, snodandosi, entrambi rotolavano a terra i ventri avidi di sangue; dai loro occhi un fuoco cattivo brillava, quando, vibrando la lingua, giunsero vicino ai bambini, proprio allora si svegliarono – poiché Zeus sa tutto – i cari figli di Alcmena, e nel palazzo si fece luce. (Teocrito, Idilli, XXIV Eraclino, 11-22)

Ificle urlò terrorizzato, ma Eracle…

Li teneva stretti fra le mani, ché li aveva legati entrambi in un potente nodo, serrandoli col pugno alla gola, dov’è il veleno fatale dei funesti serpenti, odioso perfino agli dèi. Questi a loro volta con le spire si avvolsero attorno al bambino nato tardi, lattante, che mai pianse alla nutrice; poi di nuovo allentavano le spine dorsali, quando si stancavano, nel tentativo di liberarsi dal nodo ineluttabile. (Teocrito, Idilli, XXIV Eraclino, 26-33)

Accorsi i genitori svegliati dalle urla di Ificle, la scena che si trovarono davanti fu incredibile:

[Eracle] al padre Anfitrione mostrava i rettili, e saltava in alto per la gioia infantile, e ridendo depose innanzi ai piedi di suo padre i terribili mostri intorpiditi dalla morte. (Teocrito, Idilli, XXIV Eraclino, 56-59)

Eracle crebbe, ma insieme a lui crebbe anche l’odio di Era. Giunto in età matrimoniale, sposò Megara, figlia del re di Tebe, e da lei ebbe tre figli. La dea si spinse oltre ogni limite e condusse alla pazzia il suo rivale affinché sterminasse la sua famiglia:

Evocherò la dea della discordia, seppellita nella densa nebbia, oltre il luogo d’esilio dei malvagi, protetta dall’enorme grotta del monte che impedisce il ritorno; costringerò a venir fuori dal profondo regno di Dite tutto quel che vi è rimasto: verranno l’odioso Delitto, l’Empietà feroce che lecca il sangue dei suoi, l’Errore, e la Pazzia sempre armata contro se stessa. Ecco, ecco lo strumento del mio rancore. (Seneca, La follia di Ercole, 93-99)

Così accadde. Nel palazzo reale di Tebe, Eracle scambiò Megara e i tre bambini per la moglie e i figli del cugino Euristeo, il prediletto di Era. Inutili i tentativi di restituirgli la lucidità, inascoltate le suppliche di pietà dei familiari: le frecce schizzarono dall’arco e si conficcarono nel petto delle persone più amate. Avrebbe subìto la stessa sorte anche Anfitrione, con loro in quel momento, ma Atena impedì a Eracle di scoccare la freccia fatale colpendolo con una grossa pietra che lo fece svenire. Il risveglio fu atroce, una scena raccapricciante gli saturava la vista: le sue mani avevano fatto strage della sua famiglia.

Allora si condannò da se stesso all’esilio, venne purificato da Tespio, e poi si recò a Delfi, per chiedere al dio dove poter andare. Fu in quell’occasione che la Pizia per la prima volta si rivolse a lui chiamandolo Eracle – perché prima il suo nome era Alcide; e gli disse di stabilirsi a Tirinto, e di servire Euristeo per dodici anni, e di compiere le dieci imprese che gli sarebbero state imposte: quando le avesse terminate – gli disse – avrebbe ottenuto l’immortalità. Saputo questo, Eracle andò a Tirinto, e compì quanto Euristeo gli ordinò. (Apollodoro, Biblioteca, II, 4-5).

La Pizia è la sacerdotessa di Apollo che profetizzava nel santuario di Delfi dedicato ad Apollo, mentre la città di Tirinto è nominata perché Euristeo, oltre a essere re di Micene, era anche il sovrano di Tirinto e di Argo. Questo dunque fu il motivo delle dodici fatiche (Apollodoro ne stabilisce dieci ma in realtà aggiunge le ultime due in seguito, dopo che Euristeo ne annullò altrettante); le fatiche si inseriscono così in un contesto di purificazione, mentre la servitù cui dovette sottoporsi Eracle per ben dodici anni, fu il modo con cui Era dimostrò a Zeus chi aveva l’ultima parola. Ci limitiamo ora semplicemente a elencare le fatiche perché un breve resoconto le banalizzerebbe, quando invece vivono di intense atmosfere e significati profondi. Queste le dodici imprese di Eracle:

  • I. Il leone di Nemea
  • II. L’idra di Lerna
  • III. La cerva di Cerinea
  • IV. Il cinghiale di Erimanto
  • V. Gli uccelli del lago Stinfalo
  • VI. Le stalle di Augia
  • VII. Le cavalle di Diomede
  • VIII. Il toro di Minosse
  • IX. La cintura di Ippolita
  • X. I buoi di Gerione
  • XI. I Pomi delle Esperidi
  • XII. Il cane di Ade

Durante il decennio in cui era schiavo di Euristeo, Eracle compì anche molte altre gesta. Viaggiò parecchio, sia per le prove imposte da Era, sia per guerre a cui era chiamato. Vide l’Oriente e l’Occidente. In quest’ultima direzione in particolare, dovette volgere per la X fatica, che lo sfidava a portare in Grecia i buoi di Gerione, una creatura dal triplice corpo che abitava l’isola di Eritea, l’odierna Cadice, in Spagna. Lì si racconta che abbia eretto le sue colonne, altro motivo per cui l’eroe è conosciuto. Come scrive Diodoro Siculo, ci sono sostanzialmente due versioni circa l’innalzamento dei giganteschi pilastri cilindrici:

Eracle quando approdò ai promontori dei continenti di Libia e di Europa costeggianti l’Oceano, decise di porre queste colonne a ricordo della spedizione. Volendo realizzare un’opera memorabile presso l’Oceano dicono che arginasse per un lungo tratto entrambi i promontori che prima erano separati l’uno dall’altro da una grande distanza: Eracle restrinse il passaggio ad uno spazio angusto, affinché, una volta che fosse diventato poco profondo e stretto, ai grandi mostri marini fosse impossibile aprirsi un varco dall’Oceano nell’entroterra, e insieme, per la grandezza delle sue imprese, restasse memorabile la fama di chi le aveva edificate. Come dicono alcuni, al contrario entrambi i continenti erano riuniti insieme ed egli li divise, e il passaggio aperto fece mescolare l’Oceano al nostro mare [il Mediterraneo].(Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 18)

Portate a compimento tutte le prove con successo – anche l’ultima dove gli fu addirittura richiesto di recarsi nel regno dei morti e di portare alla luce Cerbero, il cane a tre teste a guardia dell’oltretomba, che mai aveva visto il sole – Eracle fu per così dire “lasciato in pace”; ma per pochissimo tempo. Del resto come disse una volta suo padre Anfitrione:

La fine di una disgrazia non è che un passo verso la successiva. E’ appena di ritorno, che un nuovo nemico si appronta; prima di raggiungere la lieta dimora, a comando, parte per un’altra guerra e non c’è un attimo di tregua, non ci sono tempi vuoti, tranne il momento in cui riceve il comando. Lo perseguita sin dall’inizio l’ostile Giunone: la sua infanzia è stata forse indenne? Ha sconfitto mostri prima di saperli riconoscere. (Seneca, La follia di Ercole, 208-216)

Gli accadde un giorno di uccidere il figlio del re d’Ecalia in un eccesso d’ira e di pentirsene come quando si trovò di fronte al massacro della sua famiglia. Proprio come allora desiderò espiare la sua colpa, e questa volta l’oracolo di Delfi gli disse che avrebbe potuto essere purificato vendendosi come schiavo alla regina di Lidia, Onfale. Presso di lei avrebbe dovuto dimorare tre anni e sottomettersi in tutto e per tutto.

La regione di Lidia si trovava sulle coste orientali della Grecia e, presso i greci d’occidente, i suoi abitanti non avevano buona reputazione; subendo l’influenza dei costumi orientali – per cui i re si agghindavano di numerosi gioielli d’oro e pietre preziose, si profumavano e si attorniavano di eunuchi – quella gente veniva considerata effeminata e molle. Le donne poi si diceva fossero rinomate come prostitute. Recarsi e vendersi come schiavo in un paese dove a capo dello Stato non c’era un re maschio ma una donna, creatura ritenuta debole, rappresentava un’offesa molto grande per un greco dell’ovest e per di più della tempra di Eracle.

I tre anni ai piedi di Onfale furono senza dubbio un’altra manovra di Era che alle prove di coraggio volle aggiungere quella dell’umiliazione. Desiderava vedere fino a che punto Eracle sarebbe stato capace di ubbidire e piegarsi.

L’ultima moglie di Ercole, Deianira, ricorda l’esperienza del marito in una lettera che gli scrisse prima di uccidersi:

Ricorderò una sola rivale, colpa recente, per la quale sono diventata matrigna di Lamo di Lidia. Il Meandro, che tanti giri fa nelle stesse contrade, che spesso capovolge il corso delle sue acque lente, ha visto collane pendere al collo di Ercole, quel collo per cui il cielo fu un peso leggero. Non ti sei vergognato di cingere d’oro le tue braccia robuste e di pietre preziose i tuoi maschi muscoli. Eppure vinto da queste braccia fu strangolato il leone di Nemea, le cui spoglie ornano la tua spalla sinistra. Tu hai osato ornare con la mitra i tuoi irsuti capelli: rami di pioppo bianco s’addicevano meglio alla capigliatura di Ercole. E tu non pensi che era indegno di Ercole fasciare le reni con la cintura meonia alla maniera di una fanciulla lasciva? (…) Si racconta che tra le fanciulle ioniche hai portato le ceste e hai avuto paura dei rimbrotti di una padrona. Non ti rifiuti, Alcide, di aver portato canestri leggeri con quella mano che era riuscita vincitrice in mille fatiche? Con il pollice robusto fili matasse di lana e rendi all’amante avvenente la stessa quantità che t’aveva assegnato! Ah, quante volte mentre attorcigliavi il filo sotto le tue ruvide dita le tue mani troppo energiche hanno spezzato i fusi! Ai piedi della tua padrona…(Ovidio, Heroides, IX)

Se con Onfale, Ercole compromise la propria reputazione perdendo la dignità di uomo greco, grande onore invece ricevette durante uno degli anni in cui serviva Euristeo. Forse pochi lo sanno, ma Ercole fu il fondatore delle Olimpiadi.

In versi Pindaro dice:

Ed egli aveva istituito presso le sponde divine dell’Alfeo il giudizio imparziale dei grandi giochi e la festa che cade ogni quattro anni. (Pindaro, Olimpica III, 21-23)

L’Alfeo è il fiume che scorre nel Peloponneso e che passa anche vicino alla città di Olimpia, nell’Elide. Diodoro Siculo afferma che i giochi furono istituiti al termine della VII fatica, quella del toro di Minosse:

Compiuta questa impresa [toro di Minosse] istituì l’agone olimpico e per una tale riunione solenne scelse il luogo più bello, la pianura presso il fiume Alfeo, nella quale consacrò questo agone a Zeus Patrio. E come premio decise una corona, perché egli stesso aveva beneficato il genere umano senza nessuna ricompensa. (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 14)

La corona è fatta con rami d’ulivo intrecciati, lo stesso albero voluto dall’eroe perché proteggesse dal sole gli spettatori che si trovavano nel recinto sacro del santuario di Zeus di Olimpia. Egli prese gli ulivi nel lontano paese degli Iperborei, dove lo vide per la prima volta e ne fu rapito dalla bellezza:

Egli l’ottenne [l’ulivo] con la persuasione dal popolo degli Iperborei che venera Apollo. Con cuore leale chiedeva per l’accogliente santuario di Zeus un albero che potesse coprire con la sua ombra la folla di visitatori e dar corone per gli atleti valorosi.(Pindaro, Olimpica III, 16-18)

Gli Iperborei erano il popolo che abitava letteralmente “oltre” (in greco hyper) le terre da cui soffiava “Borea”, il vento del nord. Queste terre erano le regioni montuose dove nasceva il Danubio (l’Istro). Per i Greci lì si trovava l’estremo settentrione.

Pindaro invece colloca la fondazione delle Olimpiadi durante la II fatica, quando Ercole insegue la cerva dalle corna d’oro, ma in entrambe le versioni, il figlio di Zeus giunge presso le gelide montagne dalla vegetazione paradossalmente mediterranea:

Inseguendola visitò anche la contrada che si trova al di là dei soffi del freddo Borea: ivi ristette ed ammirò gli alberi. Un dolce desiderio lo prese di piantarli intorno alla meta della pista cui girano intorno i carri per dodici volte. Ed ora egli giunge propizio a questa festa insieme ai gemelli divini di Leda dall’ampia cintura. Ad essi Eracle, salendo l’Olimpo, affidò di sovrintendere a queste gare magnifiche dove concorrono il valore degli uomini e l’abile guida del carro lanciato alla corsa. (Pindaro, Olimpica III, 31-38)

Ercole naturalmente partecipò ai giochi, avendoli lui stesso fondati, e fu vincitore in tutte le discipline in cui si cimentò. Ma la vittoria più difficile doveva ancora ottenerla: si trattava di quella sulla sua stessa morte.

Gli anni prima di morire l’eroe viveva in Tessaglia nella città di Trachis, insieme alla sua ultima moglie, Deianira, una donna che aveva dovuto conquistare lottando contro un pretendente divino e avido di possedere la ragazza. Si trattava del dio-fiume Acheloo. Deianira ricorda così quei drammatici momenti e la salvezza per mano di Ercole:

Io, allora, stavo laggiù, a Aleurone, in casa, con mio padre Eneo, e subito provai lancinante ribrezzo per il mio sposalizio. Unica, tra le ragazze d’Etolia! Pazzo di me era un fiume – attenta! – l’Acheloo. Quello sollecitava mio padre, per me, e aveva tre facce. Eccolo, toro che si staglia davanti, mi cerca; poi occhi freddi di rettile snello, striato; ora viso bovino, sopra stampo d’uomo e dalla barba buia scrosciavano sgorghi, d’acqua di roccia. Che spasimante, e proprio a me! L’attesa era atroce, amara. Ogni volta, pregavo la morte, subito, non volevo aspettare d’essere dentro, avvinta in quel letto. Quanto tempo! Ma venne, finalmente, e mi fece felice, lui, l’eroico, il figlio di Zeus e di Alcmena. Piomba sull’altro, in sfida guerriera, e riscatta me, la sua donna! (Sofocle, Trachinie, 7-21)

Deianira era dunque originaria dell’Etolia, ma insieme ad Eracle dovette trasferirsi in Tessaglia dopo che il marito si auto-esiliò per aver ucciso involontariamente il coppiere di suo suocero. Fu proprio nel viaggio verso la sua ultima dimora che si preparò la sua morte: la coppia, insieme al loro figlio Illo, dovette attraversare il fiume Eveno e…

Quando arrivarono al fiume Eveno trovarono il centauro Nesso, che stava sulla riva e traghettava i passanti dietro compenso: erano stati gli dèi, diceva, a dargli questo compito, proprio per la sua onestà. Eracle attraversò il fiume da solo, e per Deianira invece pagò Nesso perché la traghettasse sulla sua groppa. Ma mentre la trasportava, il centauro tentò di violentarla. (Apollodoro, Biblioteca, II-7)

Allora Ercole…

già era arrivato sull’altra sponda e stava raccogliendo l’arco precedentemente scagliato, quando sentì delle invocazioni –, vide Nesso che se la svignava portandosi via colei che gli era stata affidata, e gridò: “Dove t’illudi di poter scappare con quelle tue zampe, o bruto? A te dico, Nesso biforme! Dammi retta, non soffiarmi cose che son mie! (…) Comunque, confida pure nelle tue risorse equine, ma non sfuggirai: non con i piedi, con un tiro ti raggiungerò!”. E confermò con i fatti le ultime parole: tirò una freccia, e trafisse la schiena al fuggiasco. Il ferro a uncino rispuntò dal petto, e come venne estratto, il sangue sprizzò via da entrambi i fori, misto al veleno infetto del mostro di Lerna. Nesso raccolse questo sangue brontolando tra sé: “Non morrò senza vendicarmi!” . (Ovidio, Metamorfosi, IX 118-131)

Proprio così. Nesso si vendicò ingannando Deianira; morente, con un filo di voce le sussurrò:

Figlia del vegliardo Eneo, del mio tragitto, se m’ascolti, molto ti gioverai, perché sei l’ultima ch’io trasportai. Se dalle mie ferite raccoglierai con le tue mani il sangue coagulato, nel punto in cui di bile nera bagnò lo strale la creatura ripugnante che fu l’Idra di Lerna, ti varrà da incantesimo per l’anima d’Eracle: lui, qualunque donna veda, non sarà mai che l’ami più di te. (Sofocle, Trachinie, 569-577)

La giovane donna credette davvero che il sangue del centauro mescolato al veleno dell’Idra, la creatura uccisa nella seconda fatica, fosse un filtro d’amore ed eseguì quanto le era stato confidato dalla creatura biforme:

serbare il filtro sempre intatto dal fuoco, indenne dagli ardenti raggi del sole in un recesso, fino al tempo d’impiegarlo per un’unzione fresca. (Sofocle, Trachinie, 685-687)

Deianira obbedì e per diversi anni in verità non ebbe mai bisogno del veleno; anzi se ne dimenticò. Ma un giorno, il suo uomo rientrò dall’ennesima guerra, vincitore come sempre lo era; tuttavia stavolta portava con sé un bottino che gli sarebbe stato fatale: una donna, la figlia del sovrano della terra d’Ecalia, appena sottomessa. Il suo nome era Iole ed Eracle la condusse a Trachis come sua nuova futura moglie. Deianira, saputo dal messaggero del marito che l’eroe era tornato avendo conquistato un paese e una sposa, fu presa da rabbia e divenne folle dalla gelosia. Come l’indole femminile vuole però, non lasciò trapelare i suoi sentimenti, anzi fece intendere che era felice che Eracle fosse tornato vincitore: si era infatti ricordata del filtro che tanto tempo prima il centauro le aveva regalato. Presa una tunica e cosparsala del veleno, la diede al messaggero Lica affinché la portasse a Eracle che stava offrendo sacrifici a Zeus sul monte Eta per ringraziarlo della vittoria. Lica eseguì l’ordine, Eracle indossò la veste ma… non appena il calore del fuoco sacrificale raggiunse la stoffa, avvenne la tragedia!

Il potente veleno cominciò a ribollire e, sciolto dal calore delle fiamme, scolò e si sparse dappertutto sulle sue membra. Finché poté, egli represse i gemiti col suo ben noto coraggio. Ma quando le sofferenze divennero intollerabili, rovesciò gli altari e riempì delle sue urla l’Eta boscoso. E subito tentò di strapparsi di dosso la veste micidiale: nei punti dove la tirava, quella tirava la pelle e, cosa raccapricciante, o restava attaccata al corpo malgrado gli sforzi di staccarla, o gli sbrindellava le carni e gli metteva a nudo le enormi ossa. E il sangue stridette come lama incandescente tuffata in una vasca gelida, e bruciò all’ardore del veleno. E il male fu inarrestabile: fuoco avido gli divorò i visceri e tutto il corpo grondò di sudore azzurrognolo, tendini bruciati schioccarono. (Ovidio, Metamorfosi, IX 161-174)

Per Eracle stavolta era giunta davvero la fine. In preda agli spasimi, poche cose riuscì a dire; ragionando ad alta voce, capì ciò che Zeus tempo addietro gli aveva predetto circa il suo destino:

Mi fu svelato da mio padre che nessun vivo mai m’avrebbe ucciso, ma un morto, abitatore dell’Averno. Ebbene, proprio secondo l’oracolo, quella fiera, il Centauro, già defunto, me vivo ha ucciso. E adesso svelerò vaticini recenti, che s’accordano con quelli antichi coincidendo appieno. Quando andai nella selva dei montani Selli, che sulla nuda terra dormono, io li trascrissi: dall’avita quercia fatidica li colsi, che mi disse come io, per l’appunto in questo tempo ora presente, avrei visto la fine dei travagli incombenti. Sarei stato bene – pensavo. Invece, di null’altro si trattava, se non della mia morte, ché non c’è più travaglio per i morti. (Sofocle, Trachinie, 1159-1173)

E dopo aver fatto promettere al figlio Illo che, raggiunta la maggiore età, avrebbe sposato lui Iole…

salì sull’Eta (il monte di Trachis), costruì una pira, vi montò e comandò di darle fuoco. Nessuno però voleva farlo: e allora lo fece Peante, che passava di lì in cerca del suo gregge. Peante accese la pira, ed Eracle gli donò il suo arco. (Apollodoro, Biblioteca, II -7)

Zeus che dall’alto lo osservava, si rivolse agli dèi, spaesati spettatori della crudele scena, e annunciò loro il compimento imminente di quel disegno divino che tanti anni prima l’invidia di una dea intaccò:

Colui che tutto ha vinto, vincerà i fuochi che vedete, e non sentirà la potenza di Vulcano che per la parte tratta dalla madre. Ciò che egli ha tratto da me, è eterno e immune e non conosce morte e non c’è fiamma che possa distruggerlo. Questa parte, come avrà ultimato la sua vicenda terrena, io la accoglierò nelle regioni del cielo, e confido che la mia decisione farà piacere agli dèi tutti (…)”. Intanto, tutto ciò che era devastabile dalla fiamma, Vulcano lo aveva distrutto. Rimase solo l’immagine di Ercole, ma irriconoscibile, senza più nulla di quel che poteva aver preso dalla madre; serbava unicamente l’impronta di Giove. E come il serpente, deposta con la pelle la vecchiaia, rimbaldanzito torna tutto nuovo e smagliante di fresche squame, così l’eroe di Tirinto, spogliato del corpo mortale, rifiorì con la parte migliore del suo essere, e cominciò a sembrare più grande, e ad assumere un’aria maestosa e solenne, un aspetto venerando. Il padre onnipotente, avvoltolo in una nuvola cava, lo rapì e con un cocchio tirato da quattro cavalli lo portò fra gli astri radiosi. (Ovidio, Metamorfosi, IX 250-272)

L’Olimpo era finalmente realtà e un’ulteriore ricompensa era stata preparata per il salvatore di uomini e dèi; l’indovino Tiresia lo sapeva da tempo:

Eracle poi, in pace, per un tempo eterno, avrebbe avuto in sorte, come splendida ricompensa per le sue dure fatiche, una calma, inalterabile felicità nel palazzo degli dèi beati. Qui, presso Zeus Cronide,di cui osserva l’augusta legge, in un convito di nozze avrebbe ricevuto come sposa Ebe, fiore di giovinezza. (Pindaro, Nemea I, 69-73)

Ebe era la figlia proprio della coppia sovrana Zeus-Era; dunque concedere la sua mano era il dono più alto che essi potessero dare. Ebe era la personificazione della Giovinezza, quella giovinezza che Eracle non poté mai vivere, e dimorava fra gli dèi come loro coppiera.

Ma secondo il cuore di Zeus mancava ancora qualcosa…

Dopo la sua apoteosi Zeus persuase Era ad adottare Ercale come figlio e a mostrargli benevolenza di madre per tutto il tempo futuro. Dicono che l’adozione avvenisse in questo modo: Era salì su di un letto, e attratto Eracle al proprio corpo lo fece cadere fino a terra attraverso i vestiti, imitando la vera nascita, cosa che a tutt’oggi fanno i barbari quando vogliono adottare un figlio. (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 39)

Questa fu la vita – una piccola parte – e la sorte di Eracle; e in suo onore allora concludiamo il nostro racconto con uno dei trentatrè canti sopravvissuti dei poeti greci seguaci di Omero, canti che intonavano per le strade, ai banchetti o durante feste private:

Canterò Eracle, figlio di Zeus, il più forte dei terrestri, che Alcmena generò nell'ampia Tebe, dopo essersi unita al Cronide dalle nere nubi. Dapprima, errando sulla terra infinita e sul mare agli ordini del reEuristeo, Eracle compì molte imprese terribili, e patì molti mali; ma ora, nella bella casa dell'Olimpo nevoso, vive sereno, e ha in sposa Ebe dalle belle caviglie. Salve, signore, figlio di Zeus: dammi valore e ricchezza. (Inni Omerici, XV)

Come ben ci si può aspettare, l’arte letteralmente trabocca di opere dedicate all’eroe. Presso gli antichi greci – ma anche romani – Eracle fu l’eroe più venerato, centinaia sono le scene delle sue gesta dipinte sui vasi in ceramica; numerosissime le statue e statuette che lo ritraggono da solo o durante le imprese, e altrettanto dicasi per le decorazioni scultoree sui templi. Durante il Rinascimento, la figura dell’eroe tornò a far parlare di sé sulle tele dipinte a olio da illustri e meno illustri pittori, nonché in statue marmoree.

La rassegna che proponiamo è, inutile dirlo, solo un piccolissimo squarcio (che non ha assolutamente le pretese di essere esaustivo) sulla prepotente mole di opere dedicate all’eroe. Cominciando dalla ceramica attica e seguendo la vita di Eracle in ordine cronologico, possiamo vederlo su questo recipiente funerario della metà del IV secolo a.C., chiamato lekythos, dipinto a figure rosse, mentre è allattato da Era, la dea che tanto lo odiava (Fig. 18 ).

Diodoro Siculo infatti racconta che:

Alcmena partorì, e temendo la gelosia di Era espose il neonato nel luogo che ora da lui si chiama “campo di Eracle”. Proprio a quel tempo Atena gli si avvicinò in compagnia di Era, e presa da ammirazione per la figura del bambino, persuase Era a porgergli il seno. Il fanciullo tirò la mammella con troppa violenza per la sua età, ed Era colpita dal dolore scagliò via il neonato; ma Atena lo portò da sua madre, e le ordinò di allevarlo. (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 9)

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Il vaso si trova al British Museum di Londra e proviene da Anzi, in Puglia.

Fra il 1575 e il 1580, il pittore Jacopo Tintoretto dipinse lo stesso episodio nel suo quadro intitolato “Origine della Via Lattea” (Fig. 19 ). La mitologia greca infatti considerava la striscia lattiginosa di stelle che attraversa i cieli estivi dell’emisfero boreale, come il latte schizzato dalla mammella di Era quando improvvisamente allontanò Eracle che succhiava il seno con troppa forza. Dalla mammella di Era si possono vedere le stelle sprizzare verso il cielo e dare così origine alla Via Lattea. Il bambino è poi attaccato al seno da Zeus, il quale secondo una versione tramandata da Igino, approfittò di un momento in cui la consorte dormiva. Nel quadro si vedono anche l’aquila, simbolo di Zeus, e due pavoni, gli uccelli sacri a Era. Il dipinto si trova alla National Gallery di Londra.

Al Louvre invece si trova uno stamnos, recipiente per il vino, a figure rosse degli inizi del V secolo a.C., proveniente dalla città etrusca di Vulci, che mostra la prima impresa di Eracle, quando strozzò i due serpenti inviati da Era (Fig. 14E):

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Non appena uscito dia fianchi materni, dopo il travaglio del parto, e venuto alla gran luce del giorno insieme al fratello gemello, il figlio di Zeus non sfuggì alla vista di Era, la dea dal trono d’oro, mentre veniva avvolto nelle fasce colore di croco. Allora la regina degli dèi, adirata nel cuore, subito mandò due serpenti che per le porte aperte penetrarono nel fondo della grande stanza, impazienti di portare sui bimbi le loro pronte mascelle. Ma il piccolo levò contro di loro il capo e intraprese la sua prima lotta, con le due mani invincibili afferrando per il collo ciascun serpente. La durata della presa fece esalare l’anima di quei corpi immani. (Pindaro, Nemea I, 35-47)

Sul vaso è ben riconoscibile il fratello Ificle, che la madre Alcmena prende fra le sue braccia per rassicurarlo, affiancata dal marito Anfitrione. Era invece si trova a sinistra mentre dà ordine ai serpenti di mordere i due bambini.

Eracle che strozza i serpenti lo possiamo vedere anche in una scultura conservata ai Musei Capitolini di Roma. Questa statua in marmo, opera di

Eracle che strozza i serpenti lo possiamo vedere anche in una scultura conservata ai Musei Capitolini di Roma. Questa statua in marmo, opera di un autore romano anonimo del II secolo d.C., interpreta molto bene a livello espressivo il coraggio del bambino, che non mostra alcuna soggezione verso i pericolosi rettili (Fig. 21 ).

Passando invece a Eracle adulto, una statua che sicuramente a tutti è capitato di vedere – non necessariamente dal vero – è l’”Ercole Farnese” custodito al Museo Archeologico di Napoli (Fig. 22 ). Questa scultura è gigantesca – 3,10 metri – e fu ritrovata nelle terme romane di Caracalla durante il XVI secolo, sotto il pontificato di Paolo III Farnese, che la volle nella sua collezione. Da qui il nome “Ercole Farnese”. La statua risale all’età Severiana, quando l’imperatore Caracalla, il cui vero nome era Marco Aurelio Severo Antonino Bassiano, fece costruire le terme imperiali più grandiose della storia di Roma, tra il 212 e il 217 d.C. Si tratta della copia romana di un originale bronzeo opera di Lisippo, uno degli scultori più importanti della Grecia della fine del IV secolo a.C.

La figura si erge massiccia, l’eroe è “pesante” come è inevitabile di fronte a una forza muscolare tanto pronunciata. Tuttavia questa pesantezza corporea diviene anche lo strumento con cui Lisippo volle evidenziare una profonda stanchezza dell’eroe. L’Ercole Farnese è anche chiamato “Ercole in riposo”; egli infatti si appoggia alla sua inseparabile clava per una tregua dopo le dodici fatiche. Nella mano dietro la schiena stringe i pomi del giardino delle Esperidi (XI fatica) che gli garantiranno l’immortalità. Il disegno di Hendrick Goltzius (Fig. 23 ), risalente all’inizio del XVII secolo, mostra il retro della statua.

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Passiamo infine all’ultimo giorno di vita di Eracle, da quando indossò la tunica avvelenata all’apoteosi nell’Olimpo.

Antonio Canova scolpì Ercole nel momento in cui si accingeva a scagliare Lica con tutta la sua forza contro una roccia (Fig. 24). Lica era il messaggero che gli consegnò la veste intrisa del veleno del centauro Nesso, a sua volta ricevuta dalla moglie Deianira.

Chiese allora in un grido all’infelice Lica, che di quel male da te fatto era innocente, che diavoleria l’avesse spinto a portargli quel peplo. Quel poverino non sapeva nulla, e rispose che il dono era soltanto tuo, tale e quale era stato mandato. Udito questo, mentre un lancinante spasmo lo prende nei polmoni, agguanta lui per un piede, dove la giuntura si flette, e contro una roccia sporgente, bagnata intorno dal mare, lo scaglia. Bianco schizza il cervello tra i capelli, mezzo cranio si sparge, e sangue insieme.(Sofocle, Trachinie, 772-784)

La violenza e il dolore che sta provando Eracle toccano la massima enfasi. Sul torace è visibile la veste letale che entra incandescente nella carne; Lica è terrorizzato, urla con quanta voce possiede e si aggrappa inutilmente alla pelle del leone che Ercole usava come abito dopo avere ucciso la fiera nella I fatica. La statua fu scolpita da Canova fra il 1795 e il 1815, e si trova nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.

E alla fine l’apoteosi, la pace, la ricompensa per una vita passata a combattere, conquistare, servire. In questa brocca per il vino, detta pelike, di tipo attico e a figure rosse (Fig. 25 ), ritrovata a Vulci e risalente alla fine del V secolo a.C., Ercole è in piedi al fianco di Atena che sul suo cocchio trainato da quattro cavalli lo conduce all’Olimpo:

La terra è soggiogata, i mari in tempesta si sono sottomessi, il regno infernale ha conosciuto la mia violenza: resta ancora indenne il cielo, fatica degna di Ercole. Mi innalzerò verso gli alti spazi del firmamento eccelso; l’etere deve essere raggiunto: mio padre mi promette le stelle. (Seneca, La follia di Ercole, 955-959)

In basso, accanto al satiro con la clava, vi è la pira da cui Ercole è asceso e nella quale è riconoscibile il suo busto arso, simbolo del suo corpo mortale. Il vaso è attribuito al cosiddetto Pittore di Cadmo ed è custodito al museo Staatliche Antikensammlungen di Monaco. E dello stesso periodo della pelike di Vulci è il cratere attico a figure rosse rinvenuto a Napoli e ora al Louvre (Fig. 26 ). Eracle seduto in pace davanti al suo tempio, si volge verso Atena, alle sue spalle, per ringraziarla di tutte le volte che è andata in suo soccorso, e per averlo appena accompagnato nella dimora degli dèi. La dea lo guarda, fiera di lui, appoggiata allo scudo. Finalmente le prove sono terminate.

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Corona Boreale

Il dio che ha voluto ornare il cielo della costellazione chiamata Corona Boreale – o semplicemente Corona, essendo quella dell’altro emisfero posteriore – è Dioniso, il Bacco dei Romani.

Alla notte trapuntata di stelle volle agganciare il diadema di una principessa che egli amò, affinché risplendesse per sempre ricordando agli uomini della loro storia d’amore. Il nome della principessa era Arianna e la vicenda di questa manciata di stelle iniziò la notte di una stagione non precisata, sulla sabbia di un’isola sperduta nelle acque dell’Egeo. Per molti quest’isola si chiamava Dia, ma quasi tutti la conoscevano col nome di Nasso. Si tratta della maggiore delle Cicladi, un tappeto morbido di spiagge calde lambite dalle onde, che al centro si stropiccia in una catena di monti che la attraversano da sud a nord. Da pochi giorni vi erano approdati la principessa Arianna di Creta con il suo amante Teseo, imminente re di Atene.

Cnosso, la città della giovane, aveva appena assistito a un avvenimento destinato a entrare nella leggenda: il Minotauro, creatura mostruosa per metà uomo e per metà toro, era stato ucciso ad opera di Teseo.

Il “Toro di Minosse”, questo il significato del nome Minotauro, viveva in una recesso freddo e umido del palazzo di Cnosso, imprigionato al centro di un intricatissimo labirinto, il quale venne edificato appositamente per scongiurarne la fuga. Per la sua costruzione Minosse, il re di Creta, si era rivolto al massimo architetto esistente, Dedalo, perché voleva essere sicuro di avere a disposizione l’opera migliore. Il Minotauro infatti era un pericolo troppo grande per la comunità, la sua ferocia era inaudita; generato proprio dalla consorte di Minosse, che tanto tempo prima perse la testa per un toro bellissimo inviato da Poseidone e si unì a lui oltraggiando così le leggi della natura, si distinse fin dall’inizio per la forza bruta e il temperamento violento. Si scagliava contro chiunque gli venisse a tiro e dopo averlo massacrato, lo finiva portandoselo alla bocca in un pasto ripugnante. Dedalo costruì un labirinto talmente complesso che egli stesso non seppe uscirne e dovette ingegnarsi una seconda volta per liberarsi. Fu in quell’occasione che si fabbricò le famose ali di cera con le quali spiccò il volo e aggirò il rebus.

Da qualche giorno dunque il Minotauro non esisteva più. Grazie a Teseo, non solo i Cretesi potevano stare tranquilli, ma soprattutto gli Ateniesi poterono finalmente tirare un sospiro di sollievo e mettere la parola fine a un tributo di vite umane che durava da molto tempo. Ogni anno infatti, i cittadini di Atene dovevano inviare a Minosse sette adolescenti di ambo i sessi e appartenenti alla nobiltà i quali, una volta giunti sull’isola, venivano rinchiusi nel labirinto e fatti sbranare dal Minotauro. Un simile vincolo impose il re di Creta al re di Atene, Egeo, colpevole di avere fatto assassinare “per futili motivi” come diremmo oggi, Androgeo, uno dei tre figli di Minosse.

Quell’anno fra i sette giovani destinati al supplizio c’era anche il figlio di Egeo in persona, Teseo. Il principe approdò sull’isola da prigioniero, insieme agli altri compagni e prima che le guardie di Minosse accompagnassero le vittime nelle viscere del palazzo, i giovani vennero fatti sfilare per le strade della città. Arianna, figlia di Minosse e sorella del defunto Androgeo, attendeva col padre su uno dei bastioni l’arrivo degli ateniesi; bella, statuaria, algida nella sua veste percorsa dal vento, aveva al suo fianco la madre Pasifae, divisa fra il rimorso che le impediva di tenere lo sguardo sul gruppo di adolescenti e il rimpianto del figlio ucciso. Quando lo sfortunato corteo giunse dinanzi all’ingresso del palazzo si fermò e Arianna osservò uno a uno i volti delle imminenti vittime. Come sempre erano visi ancora puri, spesso imberbi e, nonostante la sete di giustizia per il fratello ucciso, non poteva evitare una stretta al cuore dinanzi a un crimine perpetrato verso innocenti. Mentre faceva questi pensieri, i suoi occhi si posarono su Teseo e immediatamente ella fu rapita dalla bellezza del ragazzo: un fisico forgiato dall’assiduo allenamento nel gymnasium, occhi di tenebra fieri e senza paura, labbra disegnate da Afrodite, i capelli piccole onde che si inseguivano sul capo cinto di un sottile cerchio d’oro. Quel semplice ornamento era l’attributo dei principi e Arianna fu presa da un turbamento ancora più grande. Era dunque il principe di Atene quello che aveva di fronte; anche il principe di Atene era stato condannato al sacrificio. Arianna ebbe una ragione in più per volerlo salvare, almeno per quello che poteva. Se mai fosse riuscito a sopravvivere al Minotauro, egli doveva poi ritrovare l’uscita del labirinto, quell’uscita che nemmeno il suo ideatore era riuscito a rintracciare e questo significava essere destinati comunque a perire. La principessa non sapeva se quel giovane che già amava, sarebbe stato in grado di abbattere la belva. Poteva solo sperare nel vigore dei suoi muscoli, nel piglio ribelle che animava quell’esistenza e naturalmente… negli dèi. Se essi avessero voluto risparmiargli la vita, allora lei poteva completare l’opera e tirarlo fuori dalla prigione maledetta. L’amore, ormai impetuoso nel suo cuore, le suggerì la strategia.

Attese la notte che tutti dormissero per recarsi alla cella dov’erano rinchiusi i quattordici fanciulli. Con la torcia illuminò uno dopo l’altro i loro volti alla ricerca di quell’unico in cui riponeva le speranze. Enormi occhi terrorizzati la fissavano in attesa dell’indomani fatale. Poi eccoli, quegli occhi coraggiosi, per la prima volta nei suoi. Un fremito s’insinuò nel petto del ragazzo alla vista dello splendore di Arianna, ancora più bella vista così da vicino. Si sentì chiamare: “Tu. Avvicinati”. Mentre lo convocava, la ragazza si sforzò di tenere una condotta adeguata alla figlia del re di Creta, potente sul mare, ma la voce tradiva un’emozione incurante del lignaggio.

Teseo fece come diceva e, separati solo dalla grata, i due giovani si guardarono a lungo negli occhi, confessandosi un amore. Arianna interruppe la silenziosa contemplazione reciproca allungandogli un gomitolo color vermiglio. “Ti servirà”, gli disse. “Se riuscirai a uccidere il Minotauro, ti farà ritrovare la strada per uscire dal labirinto. Scioglilo ad ogni tuo passo affinché, ancorato all’ingresso, tracci il percorso dei tuoi piedi e se gli dèi saranno con te, ti riporterà fuori. E sarai salvo”. Il principe di Atene prese il gomitolo senza dire nulla, poi la ringraziò chinando il capo.

L’alba arrivò annunciandosi in un sole pallido. Le fanciulle piangevano, alcune gridavano in preda al panico; i ragazzi invece cercavano di essere forti, ma i loro volti erano maschere di paura. Varcata la soglia del labirinto, Teseo si mise in testa ai compagni e lasciò cadere la prima estremità del filo. Si avventurò negli innumerevoli meandri, spesso trovandosi a incrociare il filo in vicoli già percorsi, ma alla fine dopo un tragitto che lo aveva privato completamente dell’orientamento, con la testa che gli girava si ritrovò davanti il Minotauro. Era impressionante: un toro nella testa e nel collo, che continuava nelle fattezze di un uomo dal torace ricoperto di vello bovino. La creatura infine terminava con zoccoli e coda taurini. Ma Teseo non fece in tempo a studiare l’avversario che se lo ritrovò addosso con la bocca urlante e affamata. Il principe di Atene lasciò il gomitolo e intraprese un duello furioso, facendo leva sulla sola forza delle braccia e scatto delle gambe; riuscì dopo molto penare ad atterrarlo e poi a bloccarlo tenendogli le corna, serrato alla schiena pelosa sotto cui si tendevano piccoli muscoli operosi. Con uno sforzo sovrumano, Teseo strappò un corno al Minotauro, che sfociò in un grido atroce e si dibatté rabbiosamente, scagliando il figlio di Egeo contro una delle fitte pareti. Nell’atrio antistante l’ingresso del labirinto, la famiglia reale attendeva come ogni anno l’esito del tributo. Quante urla di giovani vite giungevano da quei recessi bui sotto forma di eco lontane. Impossibile abituarsi agli orrori che avvenivano nell’intrico di Dedalo: i giovanissimi ateniesi sperduti all’interno dei vicoli ciechi, in lacrime nella ricerca disperata dell’uscita, si imbattevano invece nel Minotauro, randagio nel groviglio di pietra. Arianna, terrea in volto, si tappava le orecchie ogni volta che il silenzio era interrotto da una di quelle grida agghiaccianti. Ma questa volta, il lamento non era stato di fanciullo. Possibile che il possente Minotauro fosse stato ferito?

Intanto Teseo col corno saldo nella mano si lanciava in un ultimo atto temerario: raccolte tutte le forze, trapassò il petto del Minotauro là dove batteva il cuore. L’essere ibrido stramazzò a terra con un tonfo, e in pochi istanti l’anima esalò dal corpo. Il figlio di Pasifae non esisteva più. Teseo raccolse il gomitolo e lo percorse a ritroso fino ai corridoi prossimi all’uscita, dove aveva ordinato ai compagni di aspettarlo. Al rivederlo, i giovani si sciolsero in un pianto liberatorio e lo abbracciarono convulsamente. Il principe di Atene si presentò infine alla porta che nessuno dall’interno aveva mai varcato. Le mani sporche del sangue del Minotauro, il corpo sfregiato dai colpi ricevuti, sul volto l’espressione di chi non teme nulla: era diventato un eroe.

Questo era l’uomo con cui Arianna qualche giorno dopo salpò da Creta. La nave con cui Teseo era approdato nel regno di Minosse, tornò a veleggiare sul mare con tutti gli Ateniesi e con un’ospite, la principessa Arianna, risarcimento e trofeo consenziente. Teseo tuttavia non fece rotta immediata su Atene ma si diresse nell’arcipelago delle Cicladi dove ancorò il suo veliero alle sabbie sommerse di Nasso. Lì promise ad Arianna il loro nido d’amore. Prendendole le mani, la guardò negli occhi ed rievocando le conseguenze del suo approdo a Creta – l’uccisione del Minotauro, l’esilio imposto ad Arianna dal padre per aver seguito il principe di Atene – le offrì la sua fedeltà:

Io giuro, su questi stessi pericoli, che finché vivrà l’uno e l’altro di noi, tu sarai mia!”. (Ovidio, Heroides, 10, 73-74)

Ma non erano trascorse che una manciata di notti che la Arianna ebbe un’amara sorpresa. Quanto successe lo sappiamo da una lettera che ella scrisse dall’isola, in preda allo struggimento.

Quello che leggi, o Teseo, te lo mando da quella spiaggia da dove le vele portarono via, senza di me, la tua nave, dove il mio sonno malamente mi tradì, e tu con esso, tu che con l’inganno insidiasti il mio sonno. Era l’ora in cui la terra comincia a cospargersi di cristalli di brina, e sotto il fogliame gli uccelli iniziano il loro lamento. Sveglia soltanto in parte, nel torpore lasciato dal sonno, sollevandomi appena, mossi le mani per abbracciare Teseo: non c’era più! Ritraggo le mani e provo un’altra volta, muovendo le braccia per tutto il letto: no, non c’era più! La paura mi scosse dal sonno: balzo su, atterrita, e il mio corpo si slancia fuori del letto abbandonato. Subito allora il mio petto risuonò sotto i colpi delle mani, e mi strappai i capelli, scarmigliati com’erano dal sonno. C’era la luna: guardo se vedo qualcosa, oltre alla spiaggia; ma oltre la spiaggia gli occhi non hanno altro da vedere. (Ovidio, Heroides, 10, 3-18)

A Nasso non c’era più nessuno. Solo il rumore del vento e delle onde nel loro ritmico avvolgersi sulla battigia. Arianna non si capacitava di essere stata abbandonata e in lacrime, salì su un monte dalla cui cima si protendeva un grosso scoglio.

Di lì – perché anche i venti mi sono stati crudeli – vidi le tue vele gonfiate dal soffio impetuoso di Noto. O le vidi, o come se pensassi di vederle, diventai più fredda del ghiaccio, e quasi priva di vita. Ma il dolore non mi lascia a lungo inebetita: mi risveglia, mi risveglia e allora chiamo Teseo con tutta la mia voce:Dove fuggi?” grido; “torna indietro, Teseo scellerato! Volgi la nave! Essa non è al completo!”. Così dicevo, e quel che alla voce mancava lo supplivano i colpi sul petto: i colpi si mescolavano alle mie parole. Perché tu potessi almeno vedermi, se non udirmi, ti feci larghi gesti agitando le braccia, e misi un velo bianco sulla cima di un lungo ramo per richiamare chi certamente mi aveva scordata. Ma ormai eri stato sottratto ai miei occhi, e allora alfine piansi: le mie tenere guance fin allora le aveva intorpidite l’angoscia. (Ovidio, Heroides, 10, 29-44)

I giorni che seguirono furono lacrime di rabbia, eppure se avesse visto riapparire dal mare la barca minacciosa di Teseo, gli avrebbe perdonato il tradimento. Sperava sempre che l’orizzonte le restituisse la figura delle vele nere, ma quella speranza veniva ogni volta negata.

Grida e lacrime insieme mescolava, e l’une e l’altre le accrescevano grazia, ché quel pianto non deturpava quel suo dolce viso. (Ovidio, L’arte di amare, I, lat. 531-532)

Stava piangendo accasciata sulla sabbia gridando contro l’amante infedele, quando udì in lontananza un tamburellare febbrile di cembali unito a cori femminili in delirio. Non c’era dubbio: erano le Baccanti, le seguaci del dio dell’ebbrezza, dell’eccesso, della pazzia. Dioniso… il seducente Dioniso, sovrano immortale venuto dall’Oriente col capo nascosto da pampini d’uva al posto della corona e un lungo bastone ricoperto d’edera per scettro, pelle di pantera come veste regale, coi suoi occhi magnetici e lussuriosi rapiva. Porgendo oinochoe colme di vino prendeva i sensi, cancellava gli affanni e dava l’estasi. Le donne che si erano votate a lui erano uscite di senno, e insieme ai Satiri erano divenute le sue fedeli compagne.

Per il terrore [Arianna] s’accasciò sul lido, lasciando a mezzo le ultime parole: esanime restò, senza più sangue. Ed ecco le Baccanti, coi capelli sparsi dietro le spalle, ed ecco i Satiri venir leggeri ad annunziare il dio; ecco il vecchio ubriaco, ecco Sileno cavalcare a sbilenco il somarello e abbracciarglisi al collo: le Baccanti insegue al trotto, e quelle un poco fuggono, ora insieme lo assalgono; egli sprona col bastone il quadrupede e traballa, pessimo cavaliere; e poi stramazza dall’orecchiuta bestia a capo in giù. E tutti in coro i Satiri: “Su, padre, alzati, padre!”. (Ovidio, L’arte di amare, I, lat. 537—546)

E poi eccolo: un dio di sfolgorante bellezza, la fronte cinta di foglie di vite, in una mano il tirso, nell’altra briglie d’oro con cui reggeva un carro magnifico trainato da enormi tigri. Aveva un viso di straordinaria grazia e occhi luminosi; mollezza e forza si incontravano in un'unica creatura. Non appena vide Arianna, fermò il cocchio con un gesto deciso e le belve ruggirono mentre egli si ergeva in tutta la sua magnificenza. Scese e con incedere vagamente ebbro ma tuttavia solenne si diresse verso Arianna.

Ella mancò, le fuggì via la voce, disparve ogni ricordo di Teseo; cercò tre volte invano di fuggire, tre volte la trattenne la paura. Tremò, come nel vento lieve spiga, come nel fango le palustri canne. E a lei il nume: “Son qui io, amante ben più fedele”, disse. “Non temere, o Cnossia, tu sarai sposa di Bacco. (Ovidio, L’arte di amare, I, lat. 550-554)

Detto questo le si avvicinò le prese il mento fra le mani e le rubò un bacio. Era il bacio di un dio, del dio cui nessuno poteva negarsi. Per la prima volta dall’ultima notte in cui Teseo l’aveva tenuta fra le sue braccia, Arianna si abbandonò di nuovo, la mente confusa ma leggera.

E la notte giunse di nuovo, col suo mantello di stelle fermato con un bottone di luna. Nel talamo che prima era di Teseo, giaceva ora Dioniso e fra le sue braccia si riparava Arianna. Lo sciabordio delle onde e il sussurro del vento fra le rocce dove si erano celati, accompagnavano come una musica dolcissima le parole di Dioniso per la sua amata. Carezzandole i capelli da cui poco prima aveva tolto la preziosa corona, le promise ciò che solo un dio può concedere.

Mio dono è il cielo: chiara tra le stelle t’ammireranno nuova stella in cielo. La corona di Creta ai naviganti guiderà spesso il corso”. (Ovidio, L’arte di amare, I, lat. 555-556)

L’indomani, al risveglio, Arianna credette di aver fatto un sogno, ma l’abbraccio in cui si trovava le disse che era tutto vero. Dioniso indugiò a spezzare la magia della notte con Arianna, ma poi si alzò e salì sul suo carro. Voleva radunare tutte le Menadi e avere i Satiri al completo. Percorse perciò tutta l’isola finché al crepuscolo, quando il sole cedeva il posto ai primi astri, ripeté pubblicamente la sua promessa d’amore.

Mio dono è il cielo: chiara tra le stelle t’ammireranno nuova stella in cielo. La corona di Creta ai naviganti guiderà spesso il corso”. Disse, e scese d’un balzo giù dal carro (sull’arena lasciò l’orma il suo piede) onde le tigri ella più non temesse, e sul suo petto stretta che l’ebbe (né valeva in lei forza a vincere il dio), la possedette. Tutto può un nume e sempre ciò che vuole. E intanto intorno il grido d’Imeneo alto s’udiva e il coro: “Evoè, Bacco!”; e s’unirono insieme il dio e la sposa sul sacro letto. (Ovidio, L’arte di amare, I, lat. 555-563)

Preso poi fra le mani divine il diadema della principessa di Creta, lo baciò e levatolo in alto disse:

Farò che della tua corona resti con te la memoria: Venere da Vulcano l’ottenne e tu da lei”. Detto fatto, le nove gemme si mutano in astri: ora quella corona d’oro splende per nove stelle. (Ovidio, I Fasti, III, 514-516)

Questa fu la storia di Arianna e del suo diadema tramutato in costellazione. Ma ciò che ella non seppe mai fu che in realtà Teseo non se ne era andato per volontà propria, ma l’artefice della sua partenza fu Dioniso. Dalla terra assolata della Sicilia, lo storiografo Diodoro vissuto ai tempi di Augusto, svelò quanto era accaduto a insaputa della principessa.

Avendo visto in sogno Dioniso che lo minacciava se non gli avesse lasciato Arianna, Teseo si impaurì, abbandonò la donna e prese il mare. Dioniso trasportò Arianna di notte sul monte chiamato Drio; dapprima si rese invisibile il dio, successivamente anche Arianna scomparve. (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, IV, 51)

E quell’Arianna che scomparve dalla terra, è riapparse invece copiosamente in campo artistico. Il mito di Bacco e Arianna fu infatti un tema particolarmente caro all’arte. Il mito ha avuto un’eco straordinaria in tutti i tempi fin da quelli più antichi.

fig.4c

Una delle rappresentazioni più arcaiche della coppia si trova su un’anfora attica risalente al 520-510 a.C. e attribuita a due pittori: il cosiddetto Pittore di Andokides e quello di Lysippides (Fig. 4c).

Il centro della scena è dominato da Dioniso che in una mano tiene una vite rigogliosa da cui pendono quattro grappoli d’uva, mentre nell’altra regge uno skyphos, tipo di vaso usato nei simposi per servire il vino. Arianna è di fronte a lui pronta per ricevere il vino nella oinochoe, altro recipiente destinato al consumo del vino. Al seguito del dio vi sono due Satiri, uno recante un otre e l’altro una lira, di cui il tempo ha risparmiato solo l’impugnatura. Arianna invece è accompagnata da un Satiro che porta sulla spalla un animale scarificato. La scena illustra probabilmente il momento preparatorio di un rito dionisiaco. L’anfora è conservata al Louvre.

fig.5c

Del periodo classico – circa 460 a.C. – è invece una lekythos attica a figure rosse, attribuita al cosiddetto Pittore di Pan e che oggi è ospitata al Museo Archeologico Nazionale di Taranto (Fig. 5c). La lekythos è un vaso adibito tipicamente a scopi funerari e quella conservata a Taranto rappresenta Arianna abbandonata a Nasso. La scena è ispirata a una delle molteplici varianti del mito. In questo caso infatti Teseo, nell’atto di alzarsi dal talamo, non è incitato da Dioniso ad abbandonare Arianna, ma da Atena. Arianna dorme placidamente e, ad assicurare il suo sonno, vi è un piccolo Hypnos alato – personificazione del sonno – rannicchiato sulla sua chioma. La stessa scena con qualche variante si ritrova su un recipiente riservato al trasporto del vino, dunque un vaso di grandi dimensioni, chiamato stamnos. Quello di cui si parla è opera del Pittore di Arianna e risale alla fine del V secolo a.C, circa 400-390 a.C. (Fig. 6c). Proviene dalla Puglia e oggi si trova nel Museum of Fine Arts di Boston. Anche in questo caso è Atena, protettrice dell’omonima città, che ordina a Teseo futuro re di Atene, di abbandonare Arianna. Accanto a Teseo si può vedere la prua della nave su cui sta per salire, mentre l’amata di nuovo giace addormentata sotto la sorveglianza del dio del Sonno, Hypnos, che la tiene prigioniera versandole sul capo gocce del Lete, il fiume degli inferi.

Dello stesso periodo – 380-360 a.C. – è la raffigurazione a figure rosse di Dioniso e Arianna su un cratere a volute, attribuito al Pittore di Creusa e di provenienza lucana (Fig. 7c). Il cratere era un vaso grosso e pesante dove il vino veniva mescolato con l’acqua per alleggerirlo e poi servito. Quello del pittore di Creusa mostra un’ampia scena dionisiaca, dove il dio è attorniato dal suo corteo e incoronato da Arianna. Gli amanti siedono su una collina coperta di vigneti e Dioniso ha in mano un lebes gamikòs, la coppa nuziale, indizio che la scena raffigura molto probabilmente le loro nozze.

fig.6c
fig.7c
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Nel I secolo d.C., Pompei ha invece restituito un bellissimo affresco oggi tutelato al Museo Archeologico di Napoli (Fig. 8c). Anche se il tempo ne ha sbiadito i colori in molte parti, non è difficile risalire alla magnificenza originaria dell’opera: Dioniso e Arianna stanno sul carro che qui è trainato da buoi, mentre un corteo di Menadi e di Satiri festeggia la loro unione con canti e danze. In primo piano sul lato sinistro dell’affresco è riconoscibile Sileno sul somarello di cui parla Ovidio nell’Arte di Amare. Dioniso benedice il suo seguito facendo il gesto del brindisi con il lebes gamikòs, segno che siamo dinanzi alla festa nuziale della coppia.

Con un salto di quindici secoli ci immergiamo nell’atmosfera esuberante del Rinascimento italiano. A Venezia Tiziano e il suo allievo Jacopo Robusti, noto come Tintoretto, danno vita a opere di straordinaria vitalità. Fra il 1520 e il 1523 Tiziano, il pittore più famoso del XVI secolo, realizza un dipinto di quasi due metri di larghezza che è possibile ammirare alla National Gallery di Londra (Fig. 9c). Egli è l’artista del colore, le cui tonalità sono una vera delizia per gli occhi. Il turchese, il verde smeraldo o il rosso sbiancato del mantello di Dioniso suscitano un senso di purezza che rende faticoso staccarsi dal quadro. Ma Tiziano è anche maestro nel conferire ai suoi soggetti un dinamismo nuovo rispetto alla tradizione pittorica del tempo.

Nel Bacco e Arianna, la scena si sviluppa in diagonale così che il quadro risulta diviso in due sezioni, ciascuna caratterizzata da un colore dominante che si stempera nelle sfumature ad esso proprie. Da un lato ci si perde nel turchese del cielo che diluisce la sua intensità negli elementi che gli sono subordinati: le nuvole, il mare, lo sfondo caliginoso su cui si stagliano i profili dei monti. Ma anche l’abito di Arianna è blu. Arianna dunque è assegnata al regno celeste, una scelta paradossale, dal momento che ella non è dea ma creatura mortale, terrestre. Ciò significa che, non per la sua natura umana si trova nella porzione di quadro che spetta agli dèi, bensì per il privilegio toccatole in sorte, quello di essere scelta da un dio che a sua volta l’avrebbe portata fra gli astri. Proprio sopra le nubi infatti, in corrispondenza del capo di Arianna, splende la Corona Boreale: il diadema della principessa è stato sollevato fino al firmamento e una costellazione nuova è sorta.

Dall’altro lato ci si àncora alla terra col verde dei boschi. Qui la purezza celeste è del tutto assente, il contrasto fra i due mondi è spinto all’estremo con la presenza del corteo bacchico che è per definizione sregolato, votato agli eccessi carnali. I Satiri, con gli attributi tipici di Dioniso – corona di pampini e tirso – sono metafora del carattere bestiale degli istinti umani sottoposti all’azione del vino. Ne sono testimonianza gli animali fatti a pezzi che si vedono nella scena: la testa di un cerbiatto ai piedi della Menade in primo piano e il cosciotto agitato dal Satiro all’estremità destra del dipinto. Sullo sfondo si intravede Sileno, grasso e completamente ubriaco in groppa al suo somaro. In una metà del quadro il silenzio, nell’altra il chiasso che stordisce.

Al centro, anello di congiunzione del regno celeste e del regno terrestre, Dioniso. Nell’atto di scendere dal carro agganciato a due leopardi, è completamente rapito dalla bellezza di Arianna, sorpresa mentre dà l’addio a Teseo, lontano sulla sua nave, piccola all’orizzonte e confinata all’estrema sinistra dell’opera.

Bacco e Arianna sono travolti da un sentimento cui non erano preparati, preludio di una storia d’amore destinata a diventare leggendaria.

Ma nella tela di Tiziano si può apprezzare anche il capolavoro nel capolavoro: fedele all’eredità lasciata dall’arte greca, di cui ne fece il proprio riferimento, rappresentò nel dipinto Laocoonte, in primo piano avvinghiato da serpenti. Il personaggio non c’entra nulla col mito, ma proprio in quegli anni venne alla luce in uno scavo archeologico, il famoso gruppo scultoreo.

Dioniso infine è raffigurato nella posa dell’altrettanto celebre statua del Discobolo. Il suo slancio può essere interpretato sia come l’esito dell’attrazione irresistibile per Arianna, sia come il gesto conclusivo dell’atleta quando scaglia il disco più lontano che riesce, in questo caso la corona fino a farle raggiungere gli astri. Con l’espediente del favoloso mantello rosso che si perde in mille pieghe nel vento, Tiziano ha saputo conferire straordinario dinamismo al quadro, pur lasciando nello spettatore il ricordo di un’opera complessivamente sobria.

Sul carro il dio le briglie d’oro allenta le sue tigri, alto tra l’uve e i pampini d’intorno. Ella mancò, le fuggì via la voce, disparve ogni ricordo di Teseo; cercò tre volte invano di fuggire, tre volte la trattenne la paura. Tremò, come nel vento lieve spiga, come nel fango le palustri canne. E a lei il nume: “Son qui io, amante ben più fedele”, disse. “Non temere, o Cnossia, tu sarai sposa di Bacco. Mio dono è il cielo: chiara tra le stelle t’ammireranno nuova stella in cielo. La corona di Creta ai naviganti guiderà spesso il corso”. Disse, e scese d’un balzo giù dal carro (sull’arena lasciò l’orma il suo piede) onde le tigri ella più non temesse, e sul suo petto stretta che l’ebbe (né valeva in lei forza a vincere il dio), la possedette. Tutto può un nume e sempre ciò che vuole. E intanto intorno il grido d’Imeneo alto s’udiva e il coro: “Evoè, Bacco!”; e s’unirono insieme il dio e la sposa sul sacro letto. (Ovidio, L’arte di amare, I, lat. 547-563)

fig.9c
fig.10c

Una grazia sublime caratterizza l’opera di uno degli allievi di Tiziano, il Tintoretto (Fig. 10c). Realizzata nel 1576 e conservata a Venezia nella Sala dell’Anticollegio del Palazzo Ducale, mette in scena Bacco, Arianna e Venere. La dea dell’amore unendo la mano della principessa a quella del dio come un rito nuziale, solleva delicatamente la corona dal capo di Arianna, preparandola per la sua ultima destinazione, quella celeste come sottintendono le stelle d’oro di cui è fatta. Fu Venere la prima a disporre di quel diadema, forgiato da Efesto, il dio fabbro di cui una volta fu amante. La dea in seguito lo donò ad Arianna.

I protagonisti con la loro estatica contemplazione impressa sul volto, guidano lo spettatore al centro del dipinto dove si concentra il senso stesso dell’opera: le mani di Dioniso e di Arianna che stanno per congiungersi. Il dinamismo è delicato ma ben riuscito grazie alla sospensione di Venere nell’aria e nel fluttuare del velo sottile che le cinge i fianchi. Le forme sono plastiche e la tonalità appartenente al giallo rende il quadro caldo e lucente. I corpi degli dèi e della principessa sembrano infatti come cosparsi di unguento d’oro, che è il metallo più prezioso, estremamente duttile e luminoso.

Dioniso dalle chiome d’oro la bionda Arianna, figlia di Minos, la fece sua sposa fiorente, lei che il dio figlio di Crono fece immortale e ognor giovane. (Esiodo, Teogonia, 947-949)

Il XVI secolo si chiude inaugurando l’epoca dello stile Barocco, uno stile che predilige la teatralità, suo scopo era stupire l’osservatore attraverso emozioni dirette, senza dover ricorrere all’intelletto per carpire i segreti dei quadri. Il bolognese Annibale Carracci fu uno dei primi esponenti di questo movimento artistico e dedicò gli anni dal 1597 al 1600 all’affresco del soffitto della Galleria Farnese nell’omonimo Palazzo a Roma, col soggetto di Bacco e Arianna (Fig. 11c). L’opera fa parte di un ciclo pittorico più vasto commissionato in occasione della costruzione della Galleria Farnese. Carracci fu il responsabile sia della progettazione che dell'esecuzione. Nella Galleria si volle rappresentare la potenza dell’amore servendosi della mitologia classica e in particolare delle grandi storie d’amore degli dèi olimpici. L’opera letteraria di riferimento per tali rappresentazioni furono le Metamorfosi di Ovidio. Guardando l’affresco dedicato a Bacco e Arianna si respira tutta la poesia del grande poeta latino, grazie all’estrema vitalità che scaturisce da esso. Tutti i protagonisti sono sorridenti, spensierati e l’atmosfera è quella festosa del banchetto nuziale esaltata dal giubilo dei seguaci di Dioniso. I putti alati sembrano sollevare in aria l’intera scena e non solo la corona di Arianna.

fig.11c

L’abbraccia e con i baci le terge le lacrime e “Andiamo, le dice, tutt’e due insieme su nel cielo! Tu che mi sei congiunta di letto unirai il tuo nome al mio e, trasformata, Libera sarai detta. Farò che della tua corona resti con te la memoria: Venere da Vulcano l’ottenne e tu da lei”. Detto fatto, le nove gemme si mutano in astri: ora quella corona d’oro splende per nove stelle. (Ovidio, I Fasti, III, 459-516)

fig.12c

Sempre a Bologna negli anni 1619-1620 un altro importante artista dava il suo contributo al mito di Bacco e Arianna. Era Guido Reni che rappresentò i due amanti in una composizione misurata ed elegante (Fig. 12c).

La tela, di dimensioni contenute, si trova al Los Angeles County Museum of Art e ritrae Arianna seduta su uno scoglio con l’aria rassegnata e lo sguardo rivolto al cielo dove risplende la sua corona trasformata in stelle.

Al suo fianco sta Dioniso verso il quale tende la mano, come a chiedere protezione. I colori sono quelli del cielo notturno e del mare, mentre il candore del corpo di Arianna la mette in posizione di rilievo facendone la protagonista privilegiata. Bacco invece la osserva titubante, apparentemente senza offrirsi a lei, come testimonia la posizione delle mani, l’una che sostiene il mantello l’altra poggiata sul fianco. La dichiarazione d’amore però c’è e brilla alta nel cielo.

Fu cara [Arianna] anche agli dèi, e un segno nel mezzo del cielo, una corona di stelle che porta il nome di Arianna, si volge tutta la notte fra le figure celesti. (Apollonio Rodio, Argonautiche, III, 1001-1004)

Chiude la rassegna l’opera tardo barocca di Luca Giordano, pittore napoletano che operò sul finire del Seicento (Fig. 13c). La sua ampia tela fu dipinta fra il 1685 e il 1686 e l’artista volle raffigurare il momento salvifico dell’arrivo di Dioniso. Arianna siede su un masso in riva al mare, immersa in un sonno profondo. Non si accorge infatti dei putti che sollevano il lenzuolo con cui si era coperta, per offrirla al dio che giunge alle sue spalle contemplandola. Un nutrito gruppo di satiri ancora bambini e altri piccoli fanciulli attorniano con curiosità ed entusiasmo la principessa, insieme al resto del corteo bacchico. Sullo sfondo si vedono i due leopardi di Dioniso, mentre in cielo fra vaporose nubi, splende già la corona di Arianna, illuminata dai raggi di un sole maturo. Forse l’ora rappresentata è l’alba, per cui la costellazione sta volgendo al tramonto o forse – ipotesi più probabile – l’artista ha voluto sottolineare attraverso la visibilità diurna dell’asterismo, il valore supremo che Bacco dava all’amata.

E lei rimasta sola si lamentò disperatamente, finché Bacco venne a portarle abbracci e aiuto, e, per immortalarla con una costellazione, le tolse dalla fronte il diadema e lo scagliò in cielo. Vola quello per l’aria leggera, e mentre vola, le gemme si tramutano in fulgidi fuochi che conservando la forma di una corona vanno a fermarsi a mezza via tra l’Inginocchiato e Colui che tiene il serpente. (Ovidio, Metamorfosi, VIII, 176-182)

E proprio questa disposizione si può constatare nella tavola uranografica dell’astronomo polacco Hevelius, pubblicata quattro anni dopo (Fig. 14).

 

Ilaria Sganzerla

 


Figure:

  • Fig. 9, 10, 11: dall’Uranographia di Hevelius
  • Fig. 18: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Hera_suckling_Herakles_BM_VaseF107.jpg
  • Fig. 19: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/28/Jacopo_Tintoretto_011.jpg
  • Fig. 20: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Herakles_strangling_snakes_Louvre_G192.jpg
  • Fig. 21: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Herakles_snake_Musei_Capitolini_MC247.jpg
  • Fig. 22: http://www.utexas.edu/courses/citylife/imagesr/herakles_farnese.jpg
  • Fig. 23: http://en.wikipedia.org/wiki/File:GoltziusFarneseHerc.jpg
  • Fig. 24: archivio
  • Fig. 25: archivio
  • Fig. 26: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Apotheosis_of_Herakles_Louvre_G508.jpg
  • Fig. 4c: www.theoi.com/Gallery/K12.12.html
  • Fig. 5c: www.theoi.com/Gallery/N13.3.html
  • Fig. 7c: www.theoi.com/Gallery/K12.10.html
  • Fig. 8c: www.theoi.com/Gallery/F12.2.html
  • Fig. 9c: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Titian_-_Bacchus_and_Ariadne_-_Google_Art_Project.jpg
  • Fig. 10c: www.frammentiarte.it/dal%20Gotico/Tintoretto%20opere/42%20arianna%20venere%20e%20bacco.htm
  • Fig. 11c: http://it.wikipedia.org/wiki/File:Il_trionfo_di_Bacco_e_Arianna.jpg
  • Fig. 12c: http://www.cronacheterrestri.com/images/stories/news/Reni_Arianna_Bacco.jpg
  • Fig. 13c: http://www.cronacheterrestri.com/images/stories/news/Giordano_Arianna_Bacco.jpg

Bibliografia:

  • Omero, Iliade, Einaudi, 1989
  • Pindaro, Canti, Fabbri Editori, 1995
  • Hygino Caio Giulio, Fabulario delle Stelle, Sellerio, 1996
  • Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, Guide Archeologiche Mondadori: Grecia, Ed. Mondadori, 2002
  • Giovanni di Pasquale, Fabrizio Paolucci, Uffizi, Le sculture antiche, ed. Giunti, 2001
  • Károly Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, il Saggiatore, 2002
  • Le Garzantine Simboli, Ed. Garzanti, 2004
  • Apollodoro, Biblioteca, Ed. Adelphi, 1995
  • Carmi di Teocrito e dei poeti bucolici greci minori, Classici UTET, 1997
  • Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, Vol. I, Sellerio Editore, 1988
  • Dizionario di mitologia greca e latina, Ed. UTET, 2002
  • Esiodo, Lo scudo di Eracle, Ed. BUR, 2006
  • Inni Omerici, Ed. BUR, 2000
  • Károly Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, il Saggiatore, 2002
  • Manilio, Il Poema degli Astri, Volume II, Libri III-V, Ed. Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori, 2001
  • Seneca, Ercole sul Monte Eta, Carocci Editore
  • Seneca, La follia di Ercole, Ed. BUR, 1999
  • Sofocle, Trachinie, Ed. Garzanti, 2002
  • Apollonio Rodio, Argonautiche, Ed. BUR, 1986
  • Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, Sellerio Editore, 1988
  • Dizionario di mitologia greca e latina, Ed. UTET, 2002
  • Esiodo, Teogonia, Ed. BUR, 2004
  • La Pittura del Barocco, Ed. Taschen, 1999
  • La Pittura del Rinascimento, Ed. Taschen, 1999
  • Ovidio, I Fasti, Zanichelli, 1993
  • Ovidio, L’Arte di amare, Ed. BUR, 2000
  • vidio, Lettere di eroine, BUR, 2011
  • Ovidio, Metamorfosi, Einaudi, 1999

 

 

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