Il mese di Agosto nel mito e nell'arte
 

 

Drago

Vorrei giungere alla terra ricca di meli,

alla terra delle Esperidi dal canto soave,

dove il signore del mare, sovrano

delle acque scure,

nega la via ai naviganti:

è il sacro confine del cielo

sorretto da Atlante.

Fonti di ambrosia scorrono

presso il letto di Zeus,

dove la terra divina, ricca di doni,

accresce la felicità degli dèi. (Euripide, Ippolito, 742-752)

dr

Così cantava il coro delle donne della città di Trezene, imminente spettatore della tragedia che stava per consumarsi nelle stanze reali del palazzo di Teseo. Fedra, la regina, nel giro di pochi minuti si sarebbe tolta la vita per l’insostenibile vergogna di essere stata scoperta dal marito nell’inganno passionale teso a Ippolito, il figlio di prime nozze del re. Quelle donne avrebbero voluto non essere lì, non sapere nulla di ciò che stava per accadere e non saperlo mai, avrebbero voluto essere nella terra delle Esperidi, la terra che ospitava il giardino degli dèi, la terra che nell’immaginario collettivo, rappresentava l’unico luogo del pianeta rimasto inviolato e che, proprio per questo, suscitava il desiderio di rifugiarvisi per sempre; lontani dalle miserie delle vicende umane, avvolti da una soffice cortina d’oblio che avrebbe dissolto le ceneri dell’anima fino a cancellarne il ricordo. Il giardino delle Esperidi… il giardino più ambito dalla stirpe dei mortali e allo stesso tempo proprio quello ad essi negato dagli dèi. Lo sapeva bene il poeta Pindaro che nel V secolo a.C. svelava che…

[…] di tutte le splendide cose

che noi stirpe mortale attingiamo,

navigando [l’uomo] tocca l’ultimo approdo;

ma tu non troverai per mare

né a piedi la via meravigliosa

che porta alle feste degli Iperborei. (Pindaro, Pitiche, X, 43-48)

E con quest’ultimo verso si aggiunge un particolare sul giardino meraviglioso, cioè che si trovava nel paese degli Iperborei. Essi sono letteralmente coloro che abitano “oltre Borea”, il vento del nord. Lo storiografo Diodoro Siculo vissuto durante il regno di Augusto, diceva che la loro terra era un’isola e che era posta sotto le costellazioni delle due Orse, dunque nell’estremo settentrione. Egli scriveva anche che:

Quest’isola sarebbe fertile e produrrebbe ogni tipo di frutto; inoltre avrebbe un clima eccezionalmente temperato, cosicché produrrebbe due raccolti all’anno.

[…] Dicono poi che da quest’isola la luna appaia a pochissima distanza dalla terra, e con alcuni rilievi quali quelli della terra chiaramente visibili su di essa. (Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, II, 47)

Oltre al dettaglio astronomico che riporta Diodoro, si trattava dunque di un vero e proprio Eden pagano che, come quello cristiano, fruttificava spontaneamente e per tutto l’anno – questo il significato della produzione di due raccolti annuali – così che i suoi abitanti vivevano in condizioni di assoluta felicità e innocenza. D’altra parte che, nell’antica concezione greca, il Nord rappresentasse un mondo fuori dall’ordinario, è facilmente comprensibile se si pensa alle caratteristiche climatiche e astronomiche delle regioni polari, radicalmente opposte a quelle mediterranee: più ci si dirige a Nord infatti più l’aria si fa fredda, fino a quando c’è spazio solo per paesaggi di ghiaccio, dalle condizioni ambientali proibitive per l’uomo, almeno per quello dell’Egeo. Tanto che egli non ci arrivava mai davvero, limite questo che gli antichi tradussero in termini di distanze non infinite ma talmente ampie da essere di fatto irraggiungibili; il Nord era il confine del pianeta, là la terra aveva termine.

Il polo è poi teatro di fenomeni stranissimi come le aurore boreali che agli occhi dei primi Greci dovevano apparire qualcosa di magico: lastre di luce dai colori fosforescenti, scenari onirici improbabili da decifrare. E ancora, più ci si spinge a Nord più si sperimenta un Sole che non tramonta mai; la notte non esiste, mentre dopo sei mesi, è il giorno a scomparire mentre tenebre stellate occhieggiano sugli immobili paesaggi di cristallo per altri sei mesi. A sorreggere infine tutta quella massa di cielo, un Titano: Atlante. Appartenente alla seconda generazione di dèi, quella dei Titani un tempo governatori del mondo, si era alleato con loro per impedire l’ascesa di Zeus al potere nella celebre battaglia che va sotto il nome di Titanomachia. Ma i Titani persero e Atlante fu condannato a soppesare sulle spalle e sul collo il carico dell’intera volta celeste.

Atlante il cielo ampio sostiene, a ciò costretto da forte necessità,

ai confini della terra, di fronte alle Esperidi dal canto sonoro,

con la testa facendo forza e con le infaticabili braccia;

tale destino assegnò a lui Zeus accorto. (Esiodo, Teogonia, 517-520)

Le Esperidi, coloro che battezzano l’ultimo lembo di terra ad uso esclusivo degli dèi, erano le figlie che Atlante ebbe dall’unione con Esperide. Erano sette come sette erano le Pleiadi, le altre figlie del Titano la cui madre era invece l’Oceanina Pleione. La dimora delle Esperidi era in quel frammento sacro del paese degli Iperborei, il famoso giardino, che tanto importante divenne perché ospitò le nozze della coppia divina per eccellenza, quella formata da Zeus ed Era.

Del giorno del loro matrimonio restavano precise testimonianze: le Esperidi, degli alberi carichi di mele d’oro e un gigantesco serpente di nome Ladone, quello che nel firmamento è conosciuto come la costellazione del Drago. La scia tortuosa di stelle si trova proprio nella calotta polare del cielo come se questa fosse uno specchio affacciato sul giardino, dentro il quale però si riflette soltanto l’immagine del serpente; una selezione visiva che pare mirata a ricordare a tutti il ruolo di Ladone di guardiano dei meli dorati.

Ferecide infatti dice che in occasione del matrimonio di Era con Zeus, quando gli dèi le recarono doni, la Terra vi andò portando frutti d’oro; Era li vide, li ammirò e decise che fossero piantati nel giardino degli dèi, che si trovava vicino ad Atlante. E siccome le figlie di lui continuamente rubavano i frutti, la dea vi mise a guardia il serpente che era enorme. (Eratostene, Epitome dei Catasterismi, 3)

I pomi nuziali della Terra splendevano quindi al riparo degli occhi vigili del rettile e nessuno osava tentare il furto anche di uno solo. Ma molto lontano da quel paradiso terrestre, nella città di Tirinto, vi fu chi volle infrangere le regole stabilite dagli dèi. Euristeo, il re della cittadella micenea, ordinò a Eracle, suo cugino e suo schiavo, l’undicesima fatica, consistente nel portargli proprio le mele sacre a Era. Questo significava trovarsi a faccia a faccia con Ladone, affrontare il suo pericoloso sibilo sprigionato dalle fauci strette e tuttavia voraci o, nella peggiore delle ipotesi, essere strangolati nella morsa letale delle sue spire. Ma prima ancora significava dover trovare la terra delle Esperidi, il paese degli Iperborei, rintracciare insomma il suolo proibito ai mortali. In realtà a Euristeo non interessava possedere le mele d’oro; il suo scopo era mantenere la sottomissione di Eracle attraverso il fallimento dell’impresa. Nessuno avrebbe potuto portarla a compimento, specialmente perché, anche qualora egli avesse localizzato il giardino di Era, non sarebbe sopravvissuto allo scontro col serpente. Ma naturalmente non apparteneva all’eroe il tirarsi indietro e così Eracle, nel cui nome sta scritto “gloria di Era”, ignaro delle ulteriori prove che si sarebbero aggiunte strada facendo, partì alla ricerca del paese degli Iperborei.

Affrontò per primo il figlio di Ares, Cicno, quasi quell’incontro fosse un monito del dio della guerra a non osare proseguire, intimato attraverso la sua prole sanguinaria. Ma Eracle non prestò ascolto e in un duello senza esclusione di colpi, vinse il figlio di Ares. E proseguì il suo viaggio.

Giunse presso le Ninfe, figlie di Zeus e di Temi: esse gli rivelano dove si trova Nereo. Eracle lo colse nel sonno e, benché assumesse forme di ogni genere, riuscì a legarlo e non lo liberò prima di aver saputo da lui dove si trovavano le mele delle Esperidi. Quando l’ebbe saputo, si mosse attraverso la Libia. (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 11, 255-258)

Ma ciò che non sapeva era che un quartetto di ulteriori prove lo attendeva in quei territori roventi e arsi dal vento.

In Libia si trovò al cospetto del re del paese, un ammasso nerboruto di proporzioni smisurate. Era Anteo, uno dei giganti figli di Gea, la Madre Terra. Egli aveva l’abitudine di accogliere gli stranieri sfidandoli a una lotta senza possibilità di vittoria; creatura terrigena, traeva infatti tutta la sua immane forza dal contatto col suolo, che gli restituiva perciò costantemente l’energia consumata. Eracle dovette allora affidarsi all’astuzia oltre che alla potenza: sollevatolo da terra lo strinse a sé e, nonostante i tentativi di Anteo di divincolarsi, non gli permise di toccare terra, fino a quando con una mossa brusca e repentina delle braccia, gli spezzò la spina dorsale. Fu poi la volta del potente e ricco paese d’Egitto che da nove anni però versava in gravi condizioni per via di una carestia scatenata dagli dèi. Un indovino cipriota predisse al faraone Busiride che le divinità avrebbero placato la loro collera se ogni anno egli avesse immolato a Zeus un uomo straniero. Busiride acconsentì e iniziò i sacrifici proprio dal veggente di Cipro per continuare poi con tutti i forestieri che attraversavano il suo regno. Alla stessa sorte era destinato anche Eracle, di passaggio nella terra del Nilo. I sacerdoti di Busiride lo legarono e lo condussero nel tempio presso l’ara sacrificale. Ma ancora una volta la forza dell’eroe, figlio di Zeus, gli permise di rompere i lacci e, libero, uccise il faraone.

Il viaggio proseguì in Etiopia dove stavolta ad attaccarlo, e ad avere la peggio, fu il sovrano Emazione. E infine Eracle giunse nel lontano Caucaso, le cui montagne ripercuotevano l’eco straziante delle grida di Prometeo, il Titano che aveva osato rubare la folgore a Zeus per far conoscere il fuoco agli uomini. Agganciato mani e piedi alla rupe più alta, attendeva la notte dalle cui stelle fuoriusciva puntuale l’aquila di Zeus, bramosa di affondare il becco nel fegato immortale di Prometeo. Eracle pose fine al supplizio del Titano scagliando contro il rapace una delle sue frecce intrise del veleno letale dell’idra.

Finalmente la terra delle Esperidi affiorò all’orizzonte: su un lembo di notte appena rischiarato da una falce di luna, si stagliava la sagoma di Atlante, mirabile, che sosteneva pazientemente la volta stellata. Eracle si accostò così al secondo Titano, fratello di Prometeo e ne contemplò la struttura che pur se contratta per lo sforzo, era colossale; proclamava l’orgoglio per una maestosità inviolabile, qualunque fosse stata la l’umiliazione inflitta. I due, posti l’uno di fronte all’altro, si guardavano come se ognuno vi avesse riconosciuto un proprio strano e inaspettato ritratto: era forse Eracle un Atlante in miniatura o Atlante un Eracle gigantesco? Chi dei due mostrava all’altro l’epilogo del loro comune destino di servi maledetti? Il castigo di Atlante avrebbe avuto termine, come suggeriva il numero dodici delle fatiche di Eracle, o sarebbe stato invece Eracle a non conoscere mai la conclusione delle prove che lo perseguitavano fin dalla nascita, come voleva l’immutabilità di Atlante?

Il figlio di Zeus tenne lontano il pensiero di quella sinistra possibilità per non compromettere la concentrazione del momento e, raccolto ancora una volta tutto il suo coraggio, varcò la soglia del giardino delle Esperidi. Una visione di armonia assoluta lo colse e lo confuse; pareva impossibile che in quel rifugio di delizie potessero nascondersi delle insidie: l’erba tenera sotto i piedi cancellava la stanchezza, un trionfo di fiori dalle infinite varietà punteggiava i prati di colore e inebriava l’aria con profumi ora sensuali ora fruttati, mentre le piante abbondavano talmente di mele da vedere i propri rami piegarsi.

Era un immenso, generoso dono di pace e solo allora Eracle si accorse di essere tremendamente assetato e sfinito. Ma non doveva cedere, non ancora.Una rapida occhiata lungo il perimetro sacro ispezionando l’intrico di rami alla ricerca di Ladone, per poi focalizzarsi sugli alberi nel cuore del recinto; ed ecco, tra le foglie fitte di uno dei meli, due occhi di rettile lo stavano fissando, rossi e terribili. Il serpente era lì, immobile, seminascosto dalle fronde e gelosamente avvinghiato al tronco. Le parti di pelle che si intravedevano lasciavano intuire un corpo enorme, alle cui spire sarebbero bastati pochissimi istanti per stritolare qualsiasi uomo. Ladone studiava l’ospite inatteso e per nulla gradito, incapace di trattenere il sibilo avido che gli nasceva in gola, e nel suo irrigidimento si leggeva chiara l’intenzione di fare di Eracle una preda esemplare. Lo spazio circostante si popolò in poco tempo anche delle Esperidi: una ad una apparvero fra gli alberi come spiriti e si avvicinarono all’eroe nelle loro lunghe vesti bianche che una brama di vento faceva aderire ai loro corpi, svelandone le forme seducenti e ieratiche. Eracle spostò lo sguardo dalle figure di sogno all’odioso serpente e infine ai pomi. Erano tondi, maturi… d’oro! Ma bastò la fiamma che si accese nei suoi occhi al vedere la meta della sua impresa, che Ladone attaccò con uno scatto improvviso delle fauci, e fiele denso e scuro gli schizzò contro. Il lungo ventre si srotolò dall’albero e avanzò nell’erba verso Eracle, le vergini fuggirono gridando terrorizzate e l’aria tutt’a un tratto si avvelenò di odio e sudore. Senza attendere un secondo di più, il figlio di Zeus caricò l’arco con una delle frecce intrise del siero letale dell’idra di Lerna e la scoccò centrando il bersaglio. Il colpo servì a bloccare la rapida avanzata di Ladone, il quale rispose con un secondo fiotto velenoso. Il serpente, istigato, riprese poi la sua marcia verso Eracle, mentre il veleno che impregnava la punta del dardo iniziava a diffondersi dolorosamente nel corpo. L’eroe vibrò un’altra freccia e poi un’altra ancora, fino a quando la bestia, impotente, afflosciò il capo al suolo con un forte gemito.

Il giardino tornò ad essere invitante, sebbene la massa inerte di Ladone, grottescamente contratta e macchiata di sangue offrisse un macabro spettacolo. Eracle posò lo sguardo sulle mele che splendevano tra il fogliame nella notte iperborea e parevano tante lune appese. Ne colse tre e provò una imperdonabile sensazione di sacrilegio, poi si avviò sulla lunga via del ritorno. Ma strada facendo, dentro di sé, promise a Era che i frutti sacri che, costretto, aveva dovuto rubare, le sarebbero stati restituiti. Il tempo di mostrare a Euristeo la riuscita dell’impresa e di farlo vergognare per l’oltraggio alla sposa di Zeus, e i pomi aurei sarebbero tornati all’unico posto cui appartenevano: il giardino delle Esperidi.

Portò dunque le mele e le consegnò a Euristeo; questi le prese e le donò a sua volta a Eracle: Eracle le diede ad Atena che le riportò di nuovo dalle Esperidi, perché non era lecito che fossero collocate in un luogo qualsiasi. (Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 11, 293-295)

Prima che questo accadesse però, e precisamente il giorno dopo l’uccisione del serpente, riuscirono a giungere nelle terre precluse ai mortali gli Argonauti, cinquanta eroi al fianco di Giasone diretti nella Colchide per impossessarsi del vello d’oro dell’ariete immolato.

Arrivarono alla sacra pianura dove, ancora il giorno prima,

il drago nato dalla terra, Ladone, vegliava le mele d’oro,

nel regno di Atlante, e intorno le Ninfe Esperidi

svolgevano il loro ufficio, intonando un amabile canto.

Ma il drago, appena colpito da Eracle, era disteso

presso il tronco di un melo, e muoveva soltanto la punta

della coda – dalla testa alla nera spina dorsale giaceva

senza respiro, e dove le frecce avevano contaminato il suo sangue

con la bile amara dell’idra di Lerna, le mosche

si disseccavano sopra le piaghe putride.

Là accanto le Esperidi gemevano forte, celando

la testa bionda dentro le candide mani. (Apollonio Rodio, Le Argonautiche, IV, 1396-1407)

Alla vista di tanto splendore profanato, il cantore Orfeo, che aveva preso parte alla spedizione degli Argonauti, chiese ragione di quello scempio e una delle Esperidi, Egle, rispose:

“… è venuto da noi

un uomo d’orrendo aspetto e violenza; brillavano

gli occhi sotto la fronte spietata, terribile:

era vestito della pelle di un enorme leone, selvaggia,

neppure conciata: portava un robusto tronco d’ulivo

ed un arco, e con le frecce uccise la belva”. (Apollonio Rodio, Le Argonautiche, IV, 1435-1440)

Questa fu la fine del serpente di Era, custode dei pomi d’oro. La dea però non lasciò senza ricompensa la fedeltà del suo guardiano e lo volle nel posto più prestigioso: fra le stelle, nel cielo di settentrione, dove le sue pupille affilate potessero vegliare ancora sul dono di nozze che le aveva portato Gea. Il giardino delle Esperidi costituisce per sua natura un tema caro al mondo dell’arte: l’armonia del luogo, il fascino delle Esperidi, l’incanto dei frutti d’oro sono gli elementi che dominano il contesto dal punto di vista estetico, mentre sensualità e divieto lo caratterizzano dal di dentro attraverso la triade Eden-mela-serpente, la stessa del mondo ebraico e cristiano, segno dunque di un simbolismo antichissimo e diffuso.

Un’immagine dell’undicesima fatica di Eracle si ritrova su un cratere attico a figure rosse dell’inizio del V secolo a.C. (Fig. 4), quello che qualche decennio più tardi si trasformerà nel periodo d’oro di Atene e della Grecia in generale.

Quell’inizio secolo gettò infatti le basi per un memorabile periodo di pace e di prosperità, grazie alla repressione della minaccia persiana con le vittorie dei Greci a Maratona nel 490 a.C. e a Salamina dieci anni dopo.

Il vaso è esposto al Paul Getty Museum di Malibu in California ed è stato attribuito ad un pittore di nome Kleophrades.

Purtroppo la raffigurazione si è conservata in modo frammentario; tuttavia è riconoscibile l’eroe coi suoi inconfondibili attributi iconografici della pelle di leone e della clava.

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Eracle si accinge ad affrontare il serpente Ladone, rappresentato a più teste (se ne possono vedere tre), una caratterizzazione del rettile piuttosto insolita, che di primo acchito evoca il celebre combattimento con l’idra di Lerna, il serpente multicefalo protagonista della seconda impresa di Eracle. Ma che non si tratta dell’idra, lo si comprende osservando che l’animale è attorcigliato al tronco di un albero – da cui fra l’altro pende una mela – e che poco distante si intravede una figura immobile e statuaria che altri non è che Atlante impegnato a sorreggere la volta celeste. Nel decennio 470-460 a.C. viene costruito il tempio di Zeus a Olimpia, città che sta vivendo il suo momento di massimo splendore. Il santuario è il più importante del Peloponneso e Olimpia è meta di assidui pellegrinaggi, oltre che sede dei giochi cui dà il nome.

Dalle guerre coi Persiani le poleis greche sono uscite vittoriose, rinforzate nella loro identità, stato d'animo che nelle città principali, si traduce con l’avvio di opere edilizie di straordinario valore artistico. Il tempio di Zeus a Olimpia può considerarsi a tutti gli effetti l’inaugurazione di questo periodo aureo della Grecia e lo scultore incaricato di decorare l’edificio, noto come il maestro di Olimpia, ha esaltato attraverso i suoi capolavori il nuovo stile della statuaria greca, in transizione dall’arcaismo alla classicità. Le figure e le pose abbandonano la loro rigidità per divenire progressivamente più naturali, i volti sono espressivi e non più astratti e misteriosamente estatici; nel marmo insomma vivono le passioni e il tempio che ospitava la formidabile statua di Zeus, opera di Fidia, è un susseguirsi di testimonianze del cosiddetto stile severo. Fra queste troviamo nel portico occidentale le metope, gli elementi decorativi sottostanti il fregio. Ve ne sono sei per lato, dodici in tutto dedicate al ciclo delle fatiche di Eracle. La nona metopa (Fig. 5), oggi custodita al Museo Archeologico della città, è quella attinente l’undicesima impresa dell’eroe. Come il cratere di Kleophrades anch’essa purtroppo ci è giunta incompleta, tuttavia la scena è assolutamente riconoscibile. I protagonisti sono Eracle, Atlante e Atena. Vi è rappresentata una versione del mito in cui Eracle non coglie personalmente le mele, ma incarica Atlante sostituendolo temporaneamente nel sostegno del cielo.

E [Eracle] giunse da Atlante, nel paese degli Iperborei. Prometeo però gli aveva detto di non andare lui stesso a prendere le mele, ma di mandare Atlante dopo aver preso il suo posto nel sorreggere la volta celeste. Eracle obbedì e si sostituì ad Atlante. Atlante colse tre mele dal giardino delle Esperidi e tornò da Eracle.

(Apollodoro, Biblioteca, II, 5, 11, 283-287)


La lastra di marmo pario illustra proprio il momento in cui il Titano porge le tre mele a Eracle, sulle cui spalle è adagiato un voluminoso cuscino piegato in due, quello che usavano i trasportatori di merci.

Ad aiutare Eracle nello sforzo immane di reggere il firmamento, vi è Atena, priva dei suoi attributi caratteristici (elmo, egida e lancia) ma ugualmente identificabile in quanto dea protettrice dell’eroe.


Al British Museum è custodita invece una bellissima hydria, recipiente per l’acqua, risalente alla fine del V secolo a.C. (Fig. 6). Il vaso attico a figure rosse è conosciuto come l’idria di Meidias e raffigura due episodi mitologici, uno dei quali è quello di Eracle nel giardino delle Esperidi. Non vi è rappresentato nessun momento particolare dell’impresa, ma vengono semplicemente mostrati i protagonisti come se si trattasse di una sorta di presentazione degli attori.

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Si vedono allora il serpente attorcigliato all’albero ed Eracle seduto sulla pelle di leone che si regge all’inseparabile clava; la spada è nel fodero a indicare un momento pacifico. Sta guardando una delle Esperidi, Lipara, che a sua volta ricambia lo sguardo. Alle spalle di Eracle sta Iolao, suo fedele compagno di avventure che, anche se in realtà non prende parte all’undicesima impresa, è stato voluto dal pittore presumibilmente in quanto personaggio appartenente al mito di Eracle (Fig. 7).

E’ interessante notare come le sette Esperidi, tutte in pose di estrema grazia e finemente dettagliate nelle vesti, si distinguano fra le numerose figure per il fatto di tenere sollevato con la mano un lembo della veste, quello sulla spalla come Lipara o quello sulla manica come Crisotemi, l’Esperide che sta per raccogliere una mela dall’albero (Figg. 6-8).

Al 1690 risale la carta celeste del Drago contenuta nell’atlante Firmamentum Sobiescianum dell’astronomo polacco Johannes Hevelius (Fig. 9). La raffigurazione è quella di un animale di fantasia, essendo il corpo quello di un serpente e la testa invece un incrocio fra un rapace e un felino.

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Infine, un dipinto del giardino delle Esperidi dal gusto estatico è quello realizzato dal pittore e scultore inglese Lord Frederic Leighton nel 1892 e conservato a Liverpool nella Lady Lever Art Gallery (Fig. 10).

Immerse in una calda luce ambrata, tre Esperidi giacciono l’una contro l’altra appoggiate a un melo colmo di frutti. Un enorme serpente è avvolto al tronco da cui si cala e cinge la fanciulla posta in primo piano.

Le figlie di Atlante appaiono sognanti e in uno stato di abbandono, sedotte dall’atmosfera voluttuosa di cui è permeato il giardino. Mentre una di esse dorme posando il viso al braccio della sorella, questa porge mollemente il palmo a Ladone senza tuttavia guardarlo, forse perché rapita dalla bellezza delle mele che poco oltre un ramo generoso le offre alla vista; la terza infine, adagiata anch’essa alla sorella con la nuca, interrompe il canto che stava eseguendo con la lira per cogliere uno dei pomi che osserva incantata a labbra dischiuse.

Ilaria Sganzerla


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  • Fig. 4: www.theoi.com
  • Fig: 5, 10: www.utexas.edu
  • Fig: 6, 7: www.britishmuseum.org
  • Fig: 8: www.theoi.com
  • Fig: 9: dall’Uranographia di Hevelius
Bibliografia
  • Antica Grecia, Collana “ArtBook” n. 35, Leonardo Arte, 2001
  • Apollodoro, I Miti Greci, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori Editore, 1996
  • Apollonio Rodio, Argonautiche, Ed. BUR, 1986
  • Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, Sellerio Editore, 1988
  • Eratostene, Epistome dei Catasterismi, Ed. ETS, 2010
  • Esiodo, Teogonia, Ed. BUR, 2004
  • Euripide, Ippolito, Ed. Feltrinelli, 2005
  • La Storia dell’Arte, 1. Le prime civiltà, Mondadori Electa, 2006
  • Mario Torelli, Theodoros Mavrojannis, Guide Archeologiche Mondadori: Grecia, Ed. Mondadori, 2002
  • Pindaro, Canti, Fabbri Editori, 1995

Capricorno

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Osserviamo la costellazione del Capricorno come è rappresentata nella tavola di Hevelius del 1690 (Fig. 3): una capra con tanto di corna pronunciate e fitta criniera termina a sorpresa in una coda di pesce arricciata. Chi è o meglio che cos’è il Capricorno? Per svelare l’identità di questo essere, bisogna risalire agli albori delle vicende mitiche, quando l’ordine cosmico stabilito da Zeus, terzo e ultimo sovrano del cielo e della terra, fu messo alla prova da enormi creature terrigene: i Titani.

Titani come gli dèi olimpici erano immortali, con la differenza che la loro madre era Gea, la terra, e loro padre Urano, il cielo. Gli dèi che abitavano l’Olimpo invece erano figli di Rea e di Crono, entrambi figli di Urano e Gea. I Titani erano così due generazioni più vecchi degli dèi olimpici. Essi vollero sovvertire la gerarchia divina e impossessarsi dell’Olimpo. La battaglia che si scatenò fra dèi e Titani è nota come titanomachia e, come ci narra il poeta Esiodo, durò ben dieci anni.

La svolta si ebbe quando Gea suggerì a Zeus di farsi aiutare dai Centimani, altri tre esseri mostruosi figli suoi e di Urano, i quali avevano cento braccia e cinquanta teste, nonché una

 

statura ed una forza senza pari. Grazie a tutte quelle braccia – trecento! – fu possibile scaraventare simultaneamente un quantitativo straordinario di grosse pietre sui Titani; fu una vera e propria pioggia di massi che impetuosamente cadevano dal cielo, accompagnati dal suono assordante del tuono e dal fuoco impietoso delle folgori che Zeus, signore dell’Olimpo, scagliava con altrettanta veemenza. I Titani furono in breve seppelliti e sprofondati nelle viscere della terra, nel regno dominato dal dio Tartaro. Come ci racconta Esiodo:

 

E’ lì che gli dèi Titani, sotto caligine oscura, sono celati per il volere di Zeus adunatore di nubi, in un’oscura regione, all’estremo della terra prodigiosa. Ed essi non possono uscire perché Poseidone vi pose porte di bronzo e un muro vi corre attorno da tutte le parti. Lì Gige, Cotto e Obriareo magnanimohanno dimora, custodi fedeli di Zeus egioco. (Esiodo, Teogonia, 729-735)

Gige, Cotto e Obriareo sono i nomi dei tre Centimani. Ma i pericoli per gli dèi celesti non erano finiti. Tempo dopo, Gea partorì un ultimo figlio proprio insieme a Tartaro; e quel figlio, di nuovo, avrebbe attaccato l’Olimpo: si chiamava Tifeo e la Cilicia fu la terra che ne vide la nascita.

le sue braccia son fatte per opere di forza e i piedi sono instancabili, di quel forte dio; e dalle spalle nascono cento teste di serpe, di terribile drago, di lingue nere vibranti; e dagli occhi nelle terribili teste, sotto le ciglia, splendeva un ardore di fuoco; da tutte le teste fuoco bruciava insieme allo sguardo e voci s’alzavano da tutte le terribili teste, che suoni d’ogni sorta emettevano, indicibili: ora infatti risuonanti come solo agli dèi è comprensibile, ora invece voce di toro superbo, alto muggente, dalla forza in frenabile; ora ancora di leone dal cuore spietato; ora poi somigliante alla voce di cani, meraviglia ad ascoltarsi; ora infine fischiava e ne echeggiavano le grandi montagne. (Esiodo, Teogonia, 823-835)

Il mitografo Apollodoro aggiunge anche che,

Le sue braccia aperte toccavano da una parte il tramonto e dall’altra l’aurora…(Apollodoro, Biblioteca, I, 6)

Una creatura davvero difficile da immaginarsi ma sicuramente terrificante. Grande fu la paura tra gli dèi stessi, le cui dimore olimpiche erano bersagliate continuamente da rocce incandescenti che Tifeo gettava insieme a potenti fiamme che uscivano dalla sua bocca. Egli pareva l’equivalente di uno sfigurato Zeus della terra. Gli dèi furono così terrorizzati che cercarono riparo in Egitto ed è a questo punto del mito che entra in scena Pan, il protagonista della costellazione del Capricorno.

Pan era il dio dei boschi dell’Arcadia, metà uomo e metà capra, dal cui nome deriva la parola “panico”; egli infatti, le sembianze orrende, soleva apparire all’improvviso a chi si trovava nei suoi boschi – specialmente alle ninfe – con un grido selvaggio che generava istantaneamente un terrore acuto e devastante. La vittima scappava appunto in preda al panico. Nella storia che stiamo raccontando, Pan diede un provvidenziale suggerimento agli dèi quando Tifeo giunse anche in Egitto:

Poiché gli dèi in Egitto temevano Tifone per le sue enormi dimensioni, Pan li istigò a trasformarsi in belve feroci, per ingannarlo più facilmente.(Hygino, Favole, 196)

Il latino Ovidio nelle sue Metamorfosi ci dice in quali animali si trasformarono gli dèi:

Giove diventa (…) capo del gregge, per cui in Libia ancor oggi Ammone è raffigurato con corna ricurve; il dio di Delo [Apollo n.d.r.] si camuffò da corvo, il figlio di Semele [Dioniso/Bacco n.d.r.] da capro, da gatto la sorella di Febo [Artemide/Diana n.d.r.], da vacca bianca come neve la figlia di Saturno [Era/Giunone n.d.r.], da pesce Venere, da ibis il dio di Cilene [Ermes/Mercurio n.d.r.]. (Ovidio, Metamorfosi, V, 327-331)

La fine di Tifeo poi avvenne per mano di Zeus, il quale…

quand’ebbe raccolto la forza e prese le armi,il tuono e il lampo e la folgore fiammeggiante,colpì, balzando dall’Olimpo, e tuttebruciò le terribili teste del mostro tremendo.(Esiodo, Teogonia, 853-856)

l mito appena raccontato è sicuramente originale perché si avverte un “sapore” diverso dalla maggior parte degli altri. E a pensarci, questo sapore diverso è dato dall’ambientazione insolita in cui si svolge: dopo l’Olimpo e la Cilicia, l’Egitto.

Non capita spesso di trovare storie greche in terra egiziana ed infatti l’intreccio di questi due luoghi – la Grecia e l’Egitto – è in realtà un intreccio di due culture. Molti furono i contatti che i Greci ebbero con gli Egiziani, specialmente per motivi commerciali, e com’è ovvio aspettarsi ne conobbero la religione. Gli dèi egizi colpiscono indubbiamente per il loro aspetto interamente umano eccezion fatta per la testa che è animale. La testa animale come motivo ricorrente fu senz’altro una novità per i Greci e non fu facile trovarne una giustificazione. Si dice allora che la favola della trasformazione degli dèi in animali fu il loro modo di spiegare la natura zoomorfa delle divinità egizie.

Il mitografo Hygino ce ne dà una bella testimonianza e ci dice infine come Pan entrò a far parte delle costellazioni:

Per tale motivo, gli Egiziani ci insegnano come non sia permesso maltrattare queste specie animali, in quanto per loro sono simulacri divini. Allo stesso tempo, dicono, Pan si gettò nel fiume dando alla parte posteriore del suo corpo l’aspetto di un pesce e all’altra quella di un capro. Così poté scappare a Tifone. Ammirando la sua astuta trovata, Giove volle collocarne la figura tra le costellazioni. (Hygino, Poeticon Astronomicon)

Un’ultima osservazione da fare riguarda Tifeo. Talvolta infatti è chiamato Tifeo e talaltra Tifone. Leggendo la Teogonia di Esiodo, che è il poema che narra la genealogia di tutti gli dèi greci nonché l’origine del mondo ed è uno dei poemi più antichi, Tifeo e Tifone sono due personaggi distinti. Tuttavia, come spesso accade nella trasmissione dei miti o delle favole, personaggi o parti delle vicende possono subire alterazioni da un passaggio all’altro. Così si hanno più versioni di una stessa vicenda oppure, come in questo caso, la somiglianza del nome ha confuso i due personaggi originari, fondendoli in uno solo.

Lo stesso dicasi per l’evento che precede la nascita di Tifeo, ossia la titanomachia. In diversi autori è stata confusa con la Gigantomachia, che è invece una guerra successiva anche se le motivazioni sono le stesse.

Ilaria Sganzerla


Figure:

  • Fig. 1: dall’Uranographia di Hevelius

Bibliografia:

  • Esiodo, Teogonia, Ed. BUR, 2004
  • Apollodoro, I Miti Greci, Fondazione Lorenzo Valla/Arnoldo Mondadori Editore, 1996
  • Igino, Miti, Adelphi, 2000
  • Ovidio, Metamorfosi, Einaudi, 1999
  • Caio Giulio Hygino, Fabulario delle stelle, Ed. Sellerio, 1996
  • Károly Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, il Saggiatore, 2002
  • Dizionario di mitologia greca e latina, Ed. UTET, 2002

 

Delfino

 

E poi anche, dal mare,assurge agli astri il Delfino,

ornamento dell’Oceano e del cosmo, eletto per entrambi gli elementi.

(Manilio, Astronomica, I, 346-347)

Nelle profondità del golfo che separa l’isola di Eubea dalla penisola greca, in un tempo mitico fluttuava l’immagine d’acqua del palazzo di Poseidone, signore del mare. La residenza giaceva sul fondale in corrispondenza della città di Ege, la città che diede il nome a quella parte di Mar Mediterraneo compresa fra la Grecia e le coste dell’Asia Minore. Quando il sole saliva dall’orizzonte turchese inondando di luce ogni cosa, i suoi riflessi penetravano anche fin giù, nella dimora del dio. Allora la pareti di madreperla riverberavano di bianco e di rosa, lungo le colonne il corallo trionfava in un vermiglio acceso, mentre le alghe erano tappeti cangianti di verde. Ogni giorno era uno spettacolo che si rinnovava agli occhi delle creature marine e che culminava con l’apparizione di Poseidone, in piedi sul suo carro, il tridente in pugno e quattro cavalli dalla coda di pesce che scalpitavano, impazienti di attraversare quel paesaggio fluido percorso da fremiti di freddo.

Tanto tempo prima Zeus, quando prese il potere detronizzando il padre Crono, spartì i tre regni coi suoi fratelli: quello dominato dall’acqua lo diede a Poseidone, quello sprofondato nei recessi dilaniati della terra lo ebbe Ade mentre la gloria del cielo e della terra la tenne per sé. Assegnando il mare a Poseidone, tolse lo scettro finora appartenuto a Nereo, figlio di Gea e di Ponto. Nereo era chiamato da tutti il vecchio del mare essendo stato il primo dio a governare sulle acque. Egli, dopo essersi unito a Teti, fu padre di cinquanta figlie conosciute come Nereidi o come Oceanine a seconda che fossero indicate con la discendenza paterna o materna, poiché Teti era figlia di Oceano. Le Nereidi erano rinomate per la loro straordinaria bellezza e nessuna poteva competere con loro. Solo una regina ardì sfidarle, fu Cassiopea d’Etiopia e per la sua tracotanza il popolo etiope venne sterminato da un mostro marino inviato da Poseidone.

Fra le Oceanine ve n’era una di cui il dio si innamorò follemente. Il suo nome era Anfitrite, splendida fanciulla dalla pelle dorata e dal corpo flessuoso accarezzato da vaporose onde di capelli corvini. Poseidone desiderava farla sua sposa ma lei al contrario voleva rimanere pura, come l’acqua in cui si muoveva, ora veloce ora piano, lasciando dietro di sé una scia di piccole bolle trasparenti. Nulla le dava un maggior senso di libertà e di pace dello stare lì, a contatto con quel mondo incontaminato, quel silenzio e quei mille colori e creature multiformi, senza legami con alcuno. Poseidone tuttavia non si arrendeva, anzi riteneva che la sua sovranità gli assicurasse il diritto di appropriarsi di tutto ciò che dimorava nel regno, e dunque Anfitrite non doveva permettersi di rifiutarlo. Tormentata dalle insistenze del dio, la giovane decise di fuggire. Attese la notte, quando tutti riposavano fra le braccia cedevoli di Hypnos, il sonno. Percorse miglia e miglia di mare in direzione nord, lasciandosi alle spalle le terre di Macedonia, di Tracia, del Chersoneso Taurico, finché di lei si persero le tracce. Era finita nella terra degli Iperborei, dove la volta celeste poggiava sulle spalle possenti di Atlante, il titano.

[…] Atlante, il quale del mare tutto conosce gli abissi, regge le grandi colonne, che terra e cielo sostengono da una parte e dall’altra. (Omero, Odissea, I, 52-54)

Presso di lui ella si rifugiò e nessuno tranne le sue sorelle sapeva dove si era nascosta. Poseidone inizialmente non si allarmò per l’assenza di Anfitrite, era certo che si trattasse di una fuga di poche ore, al massimo un paio di giorni e nemmeno in posti lontani, dopodiché Anfitrite si sarebbe ripresentata a casa e stavolta non gli sarebbe più sfuggita. Invece i giorni passarono; uno, due, cinque e l’Oceanina non riappariva mai. Il dio del mare a quel punto non poté attendere oltre. Interrogò a gran voce le Nereidi ordinando loro di dirgli dove si era nascosta la ribelle, ma esse non si lasciarono intimorire e fingendosi preoccupate quanto lui, gli dissero che non sapevano nulla della sorella. La collera accecò allora il signore del mare. “Se non esci tu dal tuo nascondiglio, ti verrò a tirare fuori io!”, gridò e detto questo, alzò il tridente e battendolo poi più volte sulla sabbia, lo impose su tutto il suo regno. Le tre punte di ferro presero a scintillare bieche mentre il fondale veniva rivoltato divenendo torbido. Il mare era sconvolto; dall’Olimpo Zeus vide la superficie dell’Egeo scurirsi e incresparsi sempre più fino a trasformarsi in una serie ininterrotta di marosi, che da altezze incredibili si riavvolgevano su sé stessi per schiantarsi con un tonfo sul suolo d’acqua. Poseidone scatenò tutta la sua potenza, ma inutilmente: di Anfitrite nemmeno l’ombra. Dopo essersi placato, decise di inviare i pesci più veloci in ogni direzione alla ricerca della nereide. Ordinò loro di non tornare fino a quando non l’avessero trovata. Fra di essi vi era anche un delfino che, unico, osò spingersi là dove l’acqua si fissa in enormi lastre di ghiaccio. Sfidando il freddo artico il mammifero giunse là dove Anfitrite aveva tratto il suo riparo. Quando la testa del delfino emerse dall’acqua, per qualche istante nella malinconia dei suoi occhi neri, parve fissare incantato il cielo tempestato di stelle. Sotto di esso l’immensità di Atlante, una mole granitica di muscoli puntellata su un ginocchio, le spalle ampie a sorreggere il firmamento. Poi scendendo con lo sguardo fino ai piedi del titano, finalmente eccola: Anfitrite giaceva addormentata, bella come non mai. L’indomani quando il sole si posò sul cristallo di quella terra immobile, riflessi accecanti si sparsero in quell’aria rarefatta. Il delfino allora si esibì in salti e tuffi per richiamare l’attenzione della giovane e lei, vistolo, si immerse nell’acqua con un guizzo. Quando lo ebbe raggiunto lo abbracciò forte. Calde lacrime le rigarono il viso, sentiva nostalgia del suo mare e delle sue sorelle. Il delfino, con la dolcezza del suo sguardo e il sorriso che pare disegnato sul suo muso, le parlò di Poseidone, di quanto l’amore che le dichiarava fosse vero e di come aveva devastato l’Egeo per il dolore di aver perso la sua amata. Anfitrite ascoltava con attenzione il racconto dell’animale e per la prima volta vide il fratello di Zeus sotto una luce diversa, un dio disperato per amore, un dio che non si dava pace. Per la prima volta sentì di amarlo. Abbracciando di nuovo il delfino, gli chiese di riportarla a casa. Il mammifero però volle che Poseidone la vedesse in tutto il suo splendore e così, quando giunse nei pressi di Ege, fece adagiare Anfitrite su una bellissima conchiglia rosata che spinse fino alla soglia del palazzo marino. Agitando le pinne strillò e in poco tempo una folla di pesci, molluschi e cavallucci marini si radunarono davanti alla reggia. Le Nereidi accorsero presagendo l’evento e nello stesso istante Poseidone spalancò il portone reale: Anfitrite, finalmente Anfitrite… Di una bellezza travolgente stava lì, perla di luce nella sua conchiglia a merletti. E lei, allo stesso modo, osservava il suo re: il crine blu come gli abissi marini fluiva lungo le tempie posandosi sotto le spalle, occhi di smeraldo penetravano i suoi lasciandola nuda, mentre le membra erano un fascio di nervi che proclamavano il loro potere. Il carro lo innalzava ulteriormente e i cavalli nitrivano mentre si impennavano scatenando milioni di bolle che si addensavano e si dissolvevano in turbinii evanescenti. Poseidone scese dal carro e si avvicinò ad Anfitrite. Le tese la mano che per la prima volta lei non rifiutò e alzandola la dalla conchiglia, la tirò a sé. In un sussurro liquido le chiese di sposarlo e lei acconsentì abbandonandosi nel verde dei suoi occhi. La residenza di Poseidone venne preparata per le nozze e il signore del mare volle che a celebrarle fosse proprio il delfino.

Questa è la storia del delfino di Poseidone che vediamo rappresentata in cielo tratteggiata nelle cinque stelle della costellazione. Ma oltre che sulla volta celeste il delfino accompagna spesso l’immagine di Nettuno anche nell’arte. Per esempio lo vediamo su un bel mosaico romano del III secolo d.C., conservato al Museo Nazionale della città tunisina di Susa. La scelta della tecnica del mosaico per raffigurare Nettuno e il suo entourage è piuttosto frequente nell’antichità, in quanto era una decorazione destinata ai bagni e alle terme, luoghi quindi legati all’acqua. Il mosaico tunisino è intitolato “Il carro di Poseidone” e mostra il dio in tutta la sua gloria, con il tridente in evidenza e un ampio nastro gonfiato dal vento che lo circonda dall’alto. La soluzione del nastro che volteggia nell’aria conferisce grande dinamismo alla scena che pare animarsi sia a livello visivo con i cavalli al galoppo, sia uditivo col rumore delle onde e del vento. Proprio davanti agli ippocampi – i destrieri di Poseidone dalla coda di pesce – nuota il generoso delfino.

Con un salto nel tempo di più di mille anni, arriviamo al 1564 quando lo scultore fiammingo Jean de Boulogne, meglio conosciuto come Giambologna, erige a Bologna una fontana dedicata a Nettuno. Il monumento la cui statua della divinità è in bronzo, sorge nell’omonima piazza, adiacente a Piazza Maggiore, cuore della città. Agli angoli del basamento inferiore stanno quattro Nereidi dai cui seni sgorgano zampilli d’acqua, mentre a quelli del basamento superiore, più piccolo, si sporgono seduti altrettanti putti. Nettuno è in piedi col tridente nella mano destra e, in accordo con la tradizione che ci ha tramandato Igino, posa il piede su un pesce, che altri non è che il delfino:

Quanti fanno statue in onore di Nettuno, come possiamo vedere, vi sistemano in una mano o sotto il piede, un delfino. Si ritiene che questo gli sia particolarmente gradito. (Igino, Astronomica)

Nel 1634 invece ritroviamo il delfino nascosto in un particolare del quadro del pittore francese Nicolas Poussin. Siamo in piena epoca barocca, quando l’arte vuole coinvolgere lo spettatore suscitando in lui emozioni forti. La mitologia greca con i suoi dèi ed eroi ben si prestava a realizzare l’obiettivo. I titoli stessi delle opere d’arte sono rappresentativi dello stile del XVII secolo come questo magnifico dipinto che si intitola “Il trionfo di Nettuno” e, guardando il quadro anche superficialmente, non poteva esserci nulla di più azzeccato. Poseidone è raffigurato al margine sinistro della scena, non al centro dunque perché il soggetto è il suo trionfo, ossia la sua conquista di Anfitrite, che infatti è la protagonista che l’occhio coglie per prima. Come nel mosaico di Susa, vi è un grande nastro teso dal vento che incornicia la Nereide, la quale lo tiene stretto insieme a una sorella. Anfitrite siede sulla conchiglia visibile in parte e appare compiaciuta. Alla sua destra Poseidone la guarda orgoglioso domando i quattro destrieri impazienti con una presa salda delle briglie. Tritoni e nereidi onorano la coppia in un unico immenso giubilo, mentre dall’alto vivaci cupidi spargono petali su di essi, segno che la scena rappresentata è quella delle nozze di Poseidone e Anfitrite. Sullo sfondo a sinistra si vede un carro ancora lontano sul quale un altro cupido sta raggiungendo il gruppo esultante. Il quadro è denso di particolari e osservandolo in dettaglio si possono scorgere anche due delfini. Anfitrite e una sua sorella tengono infatti una cordicella bianca ciascuna che seguendola porta ai delfini. Quello condotto da Anfitrite è naturalmente il delfino del mito trasformato in costellazione. L’opera si trova negli Stati Uniti al Philadelphia Museum of Art.

Conclude la rassegna la tavola uranografia di Hevelius del 1690 dedicata alle tre piccole costellazioni della Freccia, Cavallino e Delfino. Johannes Hevelius era un astronomo polacco che, fra le numerose e preziosissime opere astronomiche di cui fu autore, realizzò anche quella intitolata “Firmamentum Sobiescianum, sive uranographia”, comunemente chiamata “Uranographia”. Si tratta di un bellissimo atlante stellare formato da 56 tavole in rame incise che riproducono le costellazioni.

Ilaria Sganzerla

Figure

  • Fig. 3: www.theoi.com
  • Fig. 4: archivio
  • Fig. 5: www.aiwaz.net/panopticon/triumph-of-neptune-and-amphitrite/gi4966c530
  • Fig. 6: archivio

Bibliografia

  • Caio Giulio Hygino, Fabulario delle stelle, Ed. Sellerio, 1996
  • Eratostene, Epistome dei Catasterismi, Ed. ETS, 2010
  • Manilio, Il Poema degli Astri, Volume I, Libri I-II, Ed. Fondazione Lorenzo Valla / Arnoldo Mondadori, 2001
  • Omero, Odissea, Einaudi, 1989

 

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